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Giovedì, 02 Mag 2024

Paura, di Stefan Zweig, Editore Adelphi, Milano, 2011, pp.113, euro 10.

Recensione di Roberto Tomei

Uno degli scrittori più famosi e tradotti al mondo tra gli anni venti e trenta del XX secolo, Zweig vide le sue opere bruciate dai nazisti nel 1933, una sorte condivisa con altri grandi dell’epoca, come Thomas Mann, Franz Werfel, Sigmund Freud e Albert Einstein.

La sua fama è legata soprattutto all’autobiografia, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, completata nel 1941, un libro assolutamente da leggere, in cui dipinge un potente e vivido affresco della vita viennese e mitteleuropea del periodo della Belle époque, descrivendo il multiculturalismo della società asburgica, avviatasi al definitivo tramonto con la fine del primo conflitto mondiale. Indimenticabile una sua frase, che ci comunica tutto lo sgomento della sua anima: “inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell’anti-umanità”.

Ma Stefan Zweig è stato tante cose insieme: non solo scrittore, ma anche giornalista, drammaturgo e poeta. Il suo successo ebbe inizio proprio con la pubblicazione di alcune novelle, il genere in cui rientra anche il libro che qui si presenta, che narra la storia di una infedeltà coniugale. E’ il tradimento consumato dalla bella quanto annoiata signora di un noto penalista viennese, la quale aveva deciso di uscire dal “suo mondo angusto e ben ordinato”, ma conservando un animo a tal punto borghese che la nuova relazione “non l’aveva indotta a cancellare nulla del vecchio ordine”. All’amante, un musicista bohémien, dedicava, infatti, un solo giorno alla settimana, avendolo inserito nel “ben oliato meccanismo della sua esistenza, una specie di incremento della sua felicità ben temperata, come un terzo figlio o un’automobile”.

Tutto fila liscio fino a quando la donna non viene scoperta, col rischio tutt’altro che remoto che possa rompersi la sua “confortevole quotidianità priva di scosse, peculiare della buona borghesia”. Della relazione si accorge colei che le si presenta come la ragazza dell’amante e subito si atteggia a spietata ricattatrice. La paura di essere scoperta, che sempre sentiva in agguato, alla fine l’aveva “ghermita”.

Da quel momento comincia l’incubo, con richieste di denaro continue e sempre più esose, da una parte, e lo sguardo del marito, che sembra intuire tutto, dall’altra. Da bravo avvocato qual è, sembra aver capito l’inganno, un timore che alla donna si manifesta come una certezza il giorno in cui, raccontandole di una sua esperienza professionale, le dice che, in fondo, il colpevole soffre più per la paura di essere scoperto, per l’ansia di dover nascondere il delitto, che non per il castigo che potrebbe essergli inflitto, perché la pena gli si presenta anzi catartica, in quanto percepita come giusta sanzione per la sofferenza recata alla sua vittima.

Il libro si snoda tutto nella mirabile descrizione di questa suspense, nello scandaglio della psicologia dell’adultera, che alterna forti e prolungate angosce a fragili momenti in cui vorrebbe confessare la sua colpa.

Non vi dico naturalmente come la storia finisce, ma garantisco che si tratta di un finale sorprendente, un coup de théâtre che solo un grande come Zweig poteva escogitare.

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