Ci sono persone che al blasone ci tengono, anche fino al punto di andare in giudizio per vedersi riconosciuto il “titolo” che ritengono di loro spettanza. Un caso del genere si è verificato di recente davanti al Tribunale di Roma, che l’ha deciso con sentenza n.24448 del 2015.
La vicenda non deve stupire, ove si pensi che già W. M. Thackeray (1811-1863), ai suoi tempi, notava che i titoli erano aboliti ma la repubblica americana era gremita di persone che li pretendevano e li portavano. Figuriamoci che cosa può accadere in Italia, paese decisamente più onusto di storia rispetto agli Stati Uniti e in cui, dalla gens Julia (quella cui apparteneva Giulio Cesare) in poi, i nobili non ce li siamo mai fatti mancare.
Sta di fatto, tornando al caso nostro, che dagli interessati è stata convenuta in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri, appunto per farsi riconoscere il diritto ad aggiungere al proprio cognome, come parte inscindibile dello stesso, un certo predicato, ordinando ai competenti ufficiali dello stato civile di procedere alle relative annotazioni a margine dei rispettivi atti di nascita.
A sostegno della pretesa allegavano un diploma del Regno di Napoli del 1703 e un decreto ministeriale del 1941, con cui furono iscritti nel Libro d’oro della nobiltà italiana, conservato nell’Archivio centrale dello Stato, sicché doveva nei loro riguardi trovare applicazione il 2° comma della XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione, in base alla quale i predicati dei titoli nobiliari esistenti prima del 28 ottobre del 1922 valgono come parte del nome. Del resto, sempre a parere degli interessati, questo era anche l’avviso della Corte costituzionale, come manifestato nella sentenza n.101 del 1967.
Argomentando proprio dalla citata sentenza della Corte costituzionale, della quale ha considerato insufficiente riportare solo la massima, come si sarebbero limitati a fare gli istanti, il tribunale capitolino ha respinto la domanda, precisando che la disposizione transitoria in questione va interpretata “nel senso per cui intanto i predicati nobiliari esistenti alla data del 28.10.1922 possono essere riconosciuti come parte del cognome, ed in quanto tali ricevere la corrispondente tutela, in quanto ne condividano la funzione sociale di elemento distintivo dell’identità personale utile ad evitare confusioni con altri soggetti, seppur con riferimento ad una determinata appartenenza familiare”.
Pertanto, ”l’interesse della persona a modificare il proprio cognome (…) è meritevole di tutela nel vigente ordinamento se mira a preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, e cioè di coacervo di valori, intellettuali, politici, religiosi, professionali, purché anch’essi compatibili con l’ordinamento repubblicano, rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione”.
Siffatta conclusione, secondo i giudici, trova conferma sia nei lavori preparatori della Costituzione, ”da cui si ricava che funzione della citata disposizione transitoria e finale fu quella di evitare che il disconoscimento dei titoli nobiliari potesse comportare, in alcuni casi, una lesione del diritto al nome”, sia nella disciplina vigente in tema di modificazioni del nome e del cognome, che sancisce “la rilevanza condizionante che ai fini della conservazione o della modifica del cognome è riconosciuta alla sua funzione sociale identificativa”.
A parziale consolazione di coloro che si sono visti respingere l’istanza, possiamo solo ricordare che, forse dimentichi che due nobiltà ben possono coesistere nella stessa persona, uno sterminato stuolo di scrittori – da Giovenale fino a Molière – insiste nel sostenere che l’unica nobiltà è la virtù.