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Venerdì, 29 Mar 2024

unione europeaIl 23 maggio 2014, Maurizio Sgroi, scrisse un articolo dal titolo “Le quattro Europe: i nipotini di Carlo Magno” che, oggi, alla luce degli eventi legati al Brexit, ci è parso doveroso ripubblicare, sicuri di fare cosa gradita ai nostri lettori.

Si dice, appartenendo ormai tale affermazione al rassicurante recinto delle verità di cui nessuno dubita, che l’esser prezioso del disegno europeo trovi il suo riscontro nel lungo periodo di pace che l’Europa intera sta sperimentando ormai da settant’anni. Tale evidenza fattuale, insomma, diventa – retoricamente – pretesto per dedurne che la pace dipenda dal processo di integrazione dei vecchi stati nazionali nel superstato europeo.

Il sogno dell’Europa Unita, si argomenta, è perciò garanzia, esso stesso, di pace e prosperità, come dimostra la storia.

Verità che si potrebbe definire vagamente controfattuale, atteso che ignora l’influenza della pax americana imperante dal secondo dopoguerra nell’Europa occidentale.

Tale argomentare – l’integrazione europea come strumento della pace – glissa altresì su un’altra evidenza, che potremmo definire contro verità fattuale: l’Europa non ha mai smesso di muover guerra a se medesima, proprio cercando d’integrarsi.

“Avevamo allora per fine d’organizzare un grande sistema federativo europeo, (…) con gli stessi principi, una stessa moneta con parità diverse, le stesse leggi”.

Sarà, il nostro Spinelli? oppure Schuman? O magari Adenauer?

Acqua.

Potrebbe essere persino quell’Aristide Briand che ancora nel terribile 1929 vagheggiava un’unione doganale e dei mercati in Europa?

Acqua.

Inutile provarci. A meno di non essere bibliofili irrecuperabili non scoprirete mai che queste parole le ha scritte Napoleone Bonaparte il 22 aprile 1815, dopo il suo ritorno dall’Elba, nel suo preambolo agli Atti per la costituzione dell’impero.

L’Impero: la costante ossessione secolare dell’Europa dagli antichi romani in poi. L’ossessione nutrita da despoti e monarchi, primo fra tutti Carlo Magno, agli albori del IX secolo, e poi alimentata da decine di guerre, fino alle carneficine del XX secolo, passando per l’impresa napoleonica. Fu una guerra fra imperi europei la Grande Guerra. Fu una guerra per la costituzione di un altro impero – il Reich millenario di Hitler – la seconda.

Tutti costoro, gli aspiranti o divenuti imperatori, pensavano di unire l’Europa. E così pensando facevano la guerra.

Oggi un coacervo di politici e burocrati cerca di fare la stessa cosa. E così facendo pensa la guerra.

Il sogno degli ultimi nipotini di Carlo Magno, infatti, è pacifico solo in apparenza.

Le cronache di questi ultimi anni raccontano di un’altra guerra, combattuta stavolta con l’arma micidiale del denaro, che è ancora ben lungi dall’esser terminata, con i due principali contendenti, quindi Francia e Germania, che dissimulano la loro antica inimicizia con diplomatiche strette di mano a significare il tanto decantato, quanto ipotetico, asse intorno al quale sono state costruite l’Unione europea e poi l’eurozona, con noi italiani nel ruolo di cavalieri serventi, stretti come siamo nella morsa dei crediti che costoro rivendicano.

Francia e Germania, oggi come ieri, nipotini di Carlo Magno anch’essi. Nel Medioevo, nel 962, i tedeschi riesumarono dalle ceneri della storia il Sacro Romano Impero, fondando il loro primo Reich, mentre ad Occidente se ne distaccava la Franconia, ossia più o meno l’odierna Francia.

Da allora la storia dell’Europa trovò il suo centro gravitazionale attorno a questi due stati che tale rimase anche ai tempi di Carlo V, il regnante spagnolo che pure annoverava fra i suoi tanti titoli anche quello di imperatore.

La manìa imperiale di unire il continente, che poi fu quella di Napoleone e più tardi di Hitler, con la Gran Bretagna, ossessionata da un altro gioco imperiale, ma transatlantico, sempre a fare la mossa del cavallo dispettoso e, quindi, a scompaginare i piani. Questo eterno ritmare della nostra storia fra equilibrio o egemonia, come magistralmente raccontato in un vecchio libro di Ludwig Dehio, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1954, che ancora oggi vede il Regno Unito minacciare di uscire dall’Ue, e la strana coppia franco-tedesca atteggiarsi a leader e ispiratori mentre si rivolgono sguardi diffidenti figli di memorie antiche.

Come ai tempi di Mitterand, il presidente francese che volle fortissimamente la moneta unica per togliere alla Germania il suo asset più prezioso, ossia il marco, spaventato com’era dall’avvenuta riunificazione tedesca. Col risultato che oggi abbiamo una moneta forte come il marco e una Germania ancora più forte, con grande scorno dei francesi, sepolti da debiti che i tedeschi, veri maestri nell’arte del prestito estero, non mancano mai di rifinanziare.

Tutti gli altri a seguire, rimorchio utile a far massa critica, sempre in omaggio all’ossessione imperiale, che certo non si chiama più così perché fuorimoda.

Pletore di cittadini, comunque, da irretire con enormi quantità di beni durevoli, ed eserciti di lavoratori che dovranno accettare di lavorare per meno, se vorranno lavorare tutti.

Sopra tutto, a moraleggiare e insieme definire la filosofia di questo impero celato, che si sforza da più di mille anni di rivedere la luce, i banchieri centrali, con gli alfieri della Bundesbank a tagliare in diagonale lo scacchiere europeo, che si offrono come fari e nocchieri nel turbinante mondo globale, e gli stati a far da zavorra in questo glorioso procedere verso l’unità, pronti ad essere sacrificati sull’altare della stabilità finanziaria.

Pur se evidentemente superficiale ed affrettata, questa rapida narrazione identifica l’ultima delle quattro Europe come quella che meglio delle altre simboleggia lo spirito del tempo e che quindi deve essere ben compresa. Poiché oggi la storia la fa l’economia, nel senso che il fallimento economico dell’Europa sarebbe l’ennesimo fallimento storico di integrazione.

All’uopo possiamo servirci degli ultimi economic surveys elaborati dall’Ocse, dedicati proprio all’Ue e poi all’eurozona per capire a che punto siamo arrivati e, soprattutto dove andiamo a parare.

Lo stato dell’Unione, dice l’Ocse, è migliorato ma ancora non buono. La bassa crescita ha cause strutturali profonde: alta pressione fiscale, leggi sul lavoro troppo rigide e barriere alla competizione che non favoriscono la crescita dell’innovazione. Per di più, sottolinea, “la disuguaglianza è aumentata dal 1980, indebolendo il supporto dell’opinione pubblica al progetto europeo”.

L’Unione non può farsi se non c’è consenso pubblico diffuso. E tuttavia, la storia ha condotto a una costante erosione, sempre per via economica, di questo consenso.

Come non riconoscere in questo istinto suicida una delle costanti dello spirito europeo, la costituente stessa del suo guerreggiare fratricida?

Facile, peraltro, a soddisfarsi, questa hybris di morte, in un Parlamento europeo che ricorda la babele del Parlamento austro-ungarico raccontata dagli scrittori austriaci prima della Grande Guerra. Con dentro stati che nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro e popolazioni ancora più aliene. Ma d’altronde, non appartiene alla logica imperiale unificare a tutti i costi?

I costi, per adesso, sono quelli radiografati dalle bilance dei pagamenti, che l’Ocse nota in miglioramento, essendosi ridotti per via d’austerità i terribili squilibri che hanno quasi condotto l’eurozona prima, e l’Europa poi, a disintegrarsi, invece che il contrario.

Ma ne rimangono altri, forse più pericolosi. A cominciare dai tassi di inflazione, bassi dove servirebbero alti e alti dove bassi non farebbero danni. O quella dei costi del lavoro, che replica la stessa logica, con la Germania che esibisce tuttora il livello relativo più basso, persino della Grecia.

Ma anche qui, vedete, scorrendo il rapporto Ocse sull’Ue, finisce sempre che si parli di noi e loro. Ossia dei PIIGS e della strana coppia franco-tedesca, nel caso qualcuno non abbia chiaro cosa sia l’Europa dei nipotini di Carlo Magno, che finisce sempre col gravitare attorno ai confini dell’imperatore franco.

E non si dica che è una questione di pesi specifici. L’area centro-orientale dell’Ue non è meno rilevante, da un punto di vista strategico, di quella post carolingia: è solo meno ricca, e, quindi, di per sé colonia, mentre chi se lo può permettere, pensate ai paesi vichinghi, cerca spazi vitali altrove, pure se partecipando al gioco senza crederci più di tanto. Questo, esattamente, è il punto.

Sicché l’Ue è diventata un contenitore amorfo, un gioco di società che non arriva ad esprimere alcun disegno geopolitico, con la crisi Ucraina davanti a noi a mostrarlo.

Per avere senso strategico, nell’Ue dovrebbe entrarci tutta l’Eurasia, o almeno la Russia e la Turchia, che, piaccia o no, sono dentro il Grande gioco dell’economia che contribuisce a determinare l’Europa. Ammesso che un tale calderone di popolazioni, vieppiù divergenti, abbia un senso. E, invece, discutiamo con gli Usa un trattato transatlantico di cui ancora non si capisce nulla.

Per di più anche il contenitore mostra crepe gravi. La crescita nell’Ue rimane debole e non inclusiva, avvisa l’Ocse, e per di più frammentata fra le varie Europe, che molto volentieri proseguirebbero il cammino comune se ci fosse più di tutto per tutti, mentre così non è.

Al contrario: le prospettive sono stagnanti, come il prodotto. Pensate che l’Ocse stima una crescita reale del Pil del 2,2%, nell’Ue a 21, e all’1,4% dal 2013 al 2060. Quanto grasso credete possa colare sul popolo con questo livello di crescita?

Se leggiamo l’altro report Ocse, quello dedicato all’eurozona, la musica cambia poco o nulla. Le grandi speranze accese dall’Unione bancaria gioveranno forse a rimettere in sesto un sistema finanziario zeppo di crediti non esigibili ma, più che altro, gioverà alla buona salute della banca centrale e del mandarinato di Bruxelles.

Tuttavia i problemi nei paesi più deboli permangono e non sono di facile soluzione. “La posizione netta degli investimenti internazionali rimane fortemente negativa nei paesi vulnerabili e ridurla richiederebbe molti anni di saldi di conti correnti positivi”, nota l’Ocse. La qual cosa ha i noti effetti depressivi sulla crescita ed espone costantemente al rischio spread.

Inutile tornare su questioni che conosciamo bene. Vale per l’eurozona, anzi soprattutto per l’eurozona, il caveat fatto per l’Ue nel suo complesso: la crescita rimane debole e non inclusiva, quindi diseguale. Quindi a rischio esplosione sociale ossia la parente povera della guerra.

L’economia, quindi, che avrebbe dovuto essere il collante dell’Europa, rischia di essere il detonatore di una polveriera.

La pace come preparazione della guerra. Ovvero quello che è sempre successo in Europa.

Fin dai tempi di Carlo Magno.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

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