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Venerdì, 29 Mar 2024

Visto che tutti sembrano essersene dimenticati, abbiamo ritenuto opportuno ricordare ai nostri lettori che dal 1° luglio scorso è vigente la nuova legge elettorale (n. 52/2015), il cosiddetto Italicum, cui fa da pendant il decreto legislativo n.122/2015, che stabilisce i collegi elettorali per l’elezione della Camera dei deputati.

Innanzitutto, come rilevato da autorevole dottrina (Zagrebelsky), va sottolineato che si tratta di una disciplina che, nel metodo come nel merito, ricorda, addirittura in pejus, la legge (fascista) Acerbo. Come questa (la stessa cosa sarebbe accaduta successivamente solo con la famigerata legge “truffa”), infatti, è stata oggetto di questione di fiducia, laddove c’è stata finora una pacifica prassi parlamentare che ha escluso la possibilità di porre la questione di fiducia in materia elettorale; diversamente dalla legge Acerbo, che prescriveva che per ottenere il premio di maggioranza occorresse conseguire come minimo il 25% dei voti, l’Italicum non prevede alcuna soglia minima per partecipare al premio di ballottaggio, cui accedono comunque le prime due liste più votate.

Il “capo dei naufragi” della nuova disciplina sta proprio qui, ossia nel premio di maggioranza, che segna un eccessivo sbilanciamento per la “governabilità” a danno della “rappresentatività”. Da un lato, avendo previsto che la lista che ottiene almeno il 40% dei voti conquista 340 seggi, cioè il 54% dei 630 seggi della Camera, la legge non spiega che succede se due liste (come avvenne nel 2006) raggiungono almeno il 40% dei voti, dato che alla Camera di seggi ce ne sono, come detto, 630 e non 680. Dall’altro, non tiene conto che, ove si presentassero tanti partiti e tutti prendessero pochi voti, potrebbe ottenere 340 seggi, ossia riscuotere il premio, anche una lista che, superando di poco la soglia di sbarramento del 3%, accedendo così al ballottaggio, vincesse poi al secondo turno.

Nella società “liquida” e con la frammentazione che c’è nel nostro paese, uno scenario tutt’altro che fantasioso, che garantirebbe, rebus sic stanti bus, un numero di seggi abnorme a un partitino di risibili dimensioni. In ogni caso, lo diciamo per gli amanti delle comparazioni con l’Europa, un’ampia maggioranza di seggi a un solo partito come quella assicurata dall’Italicum è possibile ritrovarla soltanto in Ungheria.

Non finisce qui. Sempre stando all’Italicum, dato che i partiti che si candidano a governare debbono dichiarare la persona che loro indicano come “capo della forza politica”, si determina una trasformazione del sistema da parlamentare in presidenziale, in contrasto con l’art.92 della Costituzione (rimasto invariato anche nel disegno di revisione costituzionale), che invece attribuisce al Presidente della Repubblica la nomina del Presidente del Consiglio. Ma c’è di più: se quest’ultimo venisse sfiduciato, sarebbe inevitabile lo scioglimento anticipato delle Camere, non potendosi cambiare il presidente del Consiglio nel corso della legislatura, come avveniva finora con la forma di governo parlamentare.

Il quadro si completa con l’accoppiata “capilista bloccati” e “candidature plurime”. In concreto, se una lista conquista dei seggi in un collegio (ce ne sono cento di collegi e ciascuno di essi elegge da 3 a 9 deputati), al capolista viene sempre assegnato il primo seggio. E poiché, a conti fatti, solo nei collegi più grandi uno o al massimo due partiti eleggeranno più di un deputato, gli eletti saranno quasi dappertutto i soli capilista.

Per non correre rischi, in ogni caso, ogni capolista potrà candidarsi in più collegi, non oltre 10. Garantitasi l’elezione, questi poi opterà per il collegio che preferisce, lasciando il posto al primo dei non eletti negli altri collegi. Ognun vede, perciò, come la grande maggioranza dei deputati non sarà eletta ma, grazie al meccanismo descritto, nominata dai rispettivi partiti, un risultato decisamente incompatibile col principio della sovranità popolare.

Come si è capito, l’Italicum non ci piace. Meno ancora ci fa contenti la proposta di revisione costituzionale. Intanto, diversamente da quanto propalato dalla vulgata politico-giornalistica, ci teniamo ad avvertire i lettori che con essa non si vuole, come troppo sbrigativamente si ripete, soltanto cambiare il Senato della Repubblica ma ben 47 (leggasi 47) articoli della Costituzione, vale a dire oltre un terzo della Carta fondamentale. La posta in gioco, dunque, è alta.

A suo tempo, perciò, anche di questo ci occuperemo diffusamente.

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