Con sentenza n.19180 del 28 settembre 2016, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha dato un ulteriore contributo in ordine alla definizione degli elementi necessari alla configurazione del mobbing.
A determinare la pronuncia è stato il ricorso, rigettato dagli Ermellini, presentato da un addetto al Servizio protezione e prevenzione di un istituto bancario, che lamentava di essere stato oggetto, per quasi due anni, di condotte mobbizzanti da parte del dirigente responsabile del Servizio stesso.
Al ricorrente sarebbe successo veramente di tutto: dalla privazione degli strumenti di lavoro all’eliminazione da una lista di docenti in cui era incluso, dal blocco della carriera alla sottrazione di mansioni, oltre a essere vittima di diversi soprusi e varie derisioni.
Ebbene, la Suprema Corte ha dato ragione al ricorrente soltanto con riguardo al motivo del demansionamento per privazione delle mansioni.
Sulle restanti doglianze (in particolare, per l’asserita cancellazione dalla lista dei docenti, stante che tutti i testimoni hanno negato l’esistenza della lista stessa), invece, in considerazione della carenza di allegazione del danno patito dal lavoratore all’esito dell’asserita pluralità dei comportamenti vessatori, i giudici di Piazza Cavour hanno respinto la prospettazione del ricorrente, avendo ritenuto di non riscontrare l’intento persecutorio, che è l’elemento costitutivo della fattispecie del mobbing.
Insomma, sì al demansionamento ma no al mobbing.