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Giovedì, 25 Apr 2024

A colpi di comitati, dibattiti, incontri, convegni, manifesti e quant’altro, la campagna referendaria infuria ormai in tutta la penisola. La materia su cui i cittadini dovranno pronunciarsi è complessa e delicata e avrebbe richiesto una pacata riflessione del Parlamento, quale giusta premessa per una riforma condivisa. Purtroppo le cose sono andate diversamente. Certo la Costituzione non è intoccabile, ma cambiare 47 articoli in un colpo solo, e soprattutto a maggioranza, peraltro senza mai dirlo espressamente, non è affatto un bel segnale di democrazia, tanto più che la consultazione si svolge in un paese in cui quasi il 50% dei cittadini non va a votare e per il referendum costituzionale nemmeno è previsto il quorum.

Non resta, però, a questo punto, che entrare nel merito del confronto tra i sostenitori del Sì e quelli del No.

Per quelli del Sì, la riforma abolirebbe il bicameralismo e l’andirivieni (cosiddetta navetta) dei provvedimenti legislativi da una Camera all’altra, evitando sovrapposizioni e ritardi. Non è vero, perché continuiamo ad avere due Camere. Quanto ai ritardi causa navetta, è noto che, se si vuole, le cose si decidono presto, come prova la riforma costituzionale, fatta in soli tre mesi dal governo Monti, che, modificando l’art.81, ha introdotto il pareggio di bilancio oppure il job act. Insomma, quando i provvedimenti premono a chi governa, vengono approvati in tempi brevissimi.

Quelli del Sì ci tengono anche a sottolineare che, se passasse la riforma, a votare la fiducia al governo sarebbe solo la Camera. E’ vero che il Senato non voterebbe più la fiducia, ma dovrebbe sempre essere consultato su certe materie di importanza cruciale per il governo, come la legge di bilancio, senza dimenticare poi che esso entrerebbe in gioco in diversi procedimenti legislativi, questi venendo moltiplicati dalla riforma (sarebbero una decina, come ricordato nell’articolo della scorsa settimana).

E arriviamo, dopo quello testé illustrato, all’argomento principe dei sostenitori del Sì, quello abilmente indirizzato alla pancia del popolo, cioè che con la riforma si ridurrebbero i costi della politica, perché i senatori dai 315 attuali scendono a 100, quindi ci sarebbero forti risparmi sulle indennità finora corrisposte. L’argomento prova poco, visto che, senza scomodare la Carta costituzionale, ben si sarebbero potute tagliare del 50% le laute indennità erogate tanto ai deputati quanto ai senatori ed eliminare i vitalizi, con risultati ben più consistenti rispetto a quelli che sbandierano i sostenitori del Sì. Va anche ricordato che – qualora passasse la cosiddetta riforma – pur diminuendo i senatori, rimarrebbe comunque tutta la struttura del Senato con il suo costo.  Quanto al risparmio, più in generale, se si va a vedere tra le pieghe del bilancio, di economie se ne potrebbero fare ben altre, a cominciare dalla rinuncia a qualche aereo da guerra.

Quelli del Sì dicono pure che con la riforma si amplia la democrazia diretta, dato che si introduce il referendum propositivo e si modifica il quorum di quello abrogativo, che diventa “mobile”, in relazione all’andamento dell’astensionismo. Non è vero, dato che ci vogliono più firme sia per la richiesta di leggi di iniziativa popolare (da 50.000 si passa a 150.000) che per il referendum abrogativo (da 500.000 a 800.000), sicché di ampliamento degli strumenti della democrazia partecipativa non è proprio il caso di parlare.

Quelli del Sì dicono ancora che, visto che tutti i governi ne hanno abusato, prendendo a pretesto la necessità e l’urgenza dei provvedimenti, la riforma prevede una limitazione del ricorso ai decreti-legge. Dimenticano, quelli del Sì, che il governo finirebbe invece per monopolizzare l’attività legislativa del Parlamento, avendo la riforma introdotto l’approvazione “a data certa” dei disegni di legge governativi, laddove questa corsia preferenziale non è prevista per le leggi di iniziativa parlamentare.

Perplessi sulla funzione legislativa delle Regioni, che giudicano da esse svolta in modo inadeguato, quelli del Sì propongono poi un ritorno allo stato centrale, che vorrebbero l’unico competente a legiferare su materie strategiche, tra le quali i trasporti e l’energia. Nel disegno del governo “snello”, che decide tutto e subito, quelli del Sì finiscono così per rendere ancora peggiore la brutta riforma del 2001, quella del Titolo V della Parte II della Costituzione, in quanto tutte le Regioni vengono poste sullo stesso piano e si abbandona qualunque idea di decentramento.

Quelli del Sì sono inoltre convinti che, rivedendo la riforma costituzionale del 2001 testé citata e con il Senato ridotto a camera di compensazione tra Stato centrale e territori, si dovrebbe ridurre il contenzioso davanti alla Corte costituzionale. E’ vero il contrario, perché, con l’abolizione delle materie concorrenti, il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni tenderà a aumentare, ma identico fenomeno si produrrà anche nei rapporti tra Camera e Senato, stante che a quest’ultimo viene dalla riforma attribuito un potere di “richiamo” delle leggi dalla portata indefinita, dunque tutto da verificare.

P. S. Dopo un’iniziale personalizzazione dello scontro tra il Sì e il No, il governo ha progressivamente fatto marcia indietro su questa scelta. Una decisione liberamente assunta, che noi rispettiamo. Che anzi condividiamo, perché – ci teniamo a sottolinearlo – qui è in gioco molto di più che la continuità dell’azione di governo, come ho cercato di spiegare finora. Ma il quadro si chiarisce ancora meglio se la riforma costituzionale si connette alla nuova legge elettorale, che a chi vince al ballottaggio, anche per un solo voto, consente di governare grazie alla previsione di uno stupefacente “premio di minoranza.”  

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