Dove non sono riusciti i tanti progetti per sovvertire l'assetto costituzionale democratico nato dalla Resistenza - dai tentativi di golpe, alla strategia della tensione, per finire al “Piano di Rinascita Democratica” di Licio Gelli (che riprendeva alcuni spunti proposti nel pamphlet The Crisis of Democracy, scritto nel 1975 dai professori Huntington, Crozier e Watanuki su mandato della Commissione Trilaterale fondata da David Rockefeller), passando per la riforma costituzionale di Berlusconi bocciata dal referendum - è riuscita la finanza.
Era il maggio 2013 quando, ad elezioni politiche appena tenutesi in Italia, la Jp Morgan stilò un documento di 16 pagine nel quale sosteneva che per uscire dalla crisi economica in Europa occorreva cambiare "I sistemi politici dei paesi del sud e, in particolare, le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo” con “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo”.
Un consiglio che questo esecutivo ha fatto proprio dal primo giorno del suo insediamento, forte anche di un terreno di coltura favorevole. Infatti, sono più di vent'anni che si è acceso un dibattito sull’esigenza indifferibile di varare radicali riforme costituzionali ed istituzionali, e sono in molti a reputare la Costituzione del 1948 uno strumento obsoleto da cancellare al più presto, per favorire non si sa quale crescita del paese.
Paradossale, poi, che proprio tra coloro che hanno ricoperto il ruolo istituzionale di garante della Costituzione si possano annoverare i più accaniti sostenitori del “cambiamento”, da Cossiga a Napolitano. L’obiettivo è sempre stato quello di creare un governo forte, con un uomo forte e solo al comando, capace di realizzare il suo programma di governo, senza l'intralcio di istituzioni di garanzia o di altre istituzioni rappresentative.
Tutte le riforme fatte nell'ultimo ventennio portano a questo obiettivo: dalle leggi elettorali, alle modifiche alla Costituzione.
Come ha scritto il costituzionalista Domenico Gallo “Il problema è che adesso questo lungo viaggio sta per terminare. Quando andranno a regime la riforma elettorale (Italicum), la riforma del Senato, la riforma della pubblica amministrazione (che demolisce il principio costituzionale dell'imparzialità e del buon andamento), la riforma della scuola (che assoggetta l'istruzione pubblica ad una logica aziendale), le varie riforme del mercato del lavoro (che riconducono il lavoro a merce), allora si sarà completato un processo di vera e propria sostituzione del modello di democrazia, del modello di Stato e del modello economico sociale delineati nella Costituzione della Repubblica italiana.
Tutte queste riforme sono convergenti verso la creazione di un nuovo quadro istituzionale che si realizza con la figura dell’uomo solo al comando e con la sterilizzazione, se non l’abiura dei principi e dei valori che la Costituzione ha posto a base della vita della Repubblica”.
L'ultimo atto è stata la riforma (rectius cancellazione del Senato) e il ridimensionamento dei poteri della Camera dei Deputati. Insomma, è la cancellazione della democrazia parlamentare e la sua sostituzione con il premierato, con la repubblica presidenziale.
Di questo quasi non si è parlato sui mezzi di informazione, che si sono limitati ad esaltare la riduzione del numero dei senatori o a porre come tema fondamentale quello dell'eleggibilità degli stessi. Né ci si è indignati dinanzi all'aborto della semi-elezione, un compromesso che non restituisce affatto ai cittadini il potere di elezione diretta dei senatori. Durante le elezioni regionali (una legge ordinaria, dettaglierà il meccanismo) i cittadini esprimeranno la loro preferenza, ma poi saranno i consigli regionali ad eleggere i futuri senatori, in proporzione alla loro composizione partitica.
In prima battuta, saranno comunque nominati dai consigli regionali, presumibilmente si entrerà a regime solo nel 2022. Ben 10 Regioni avranno due soli senatori, uno dei quali sarà un sindaco, cosa che premia le Regioni molto piccole come Val d'Aosta e Molise, e danneggia le Medie come le Marche. La Lombardia, con i suoi 14 senatori, sarà la regione con il maggior peso specifico.
Così come non si è parlato dell'incrocio che viene a determinarsi tra “riforma costituzionale” e altri provvedimenti di legge varati di recente, né del fatto che siano state sottratte alle Regioni tutte le competenze attinenti al governo del territorio e che vengano eliminate le materie di competenza concorrente. Né si è detto che sia stato attribuito al Governo il controllo del calendario dei lavori della Camera dei Deputati.
La cosiddetta riforma costituzionale, unita alla nuova legge elettorale che garantisce al partito più votato il 55% dei seggi, ci porterà in un sistema che di democratico avrà ben poco. Con l’Italicum almeno 340 seggi su 630 andranno al primo partito, anche se raccoglie una esigua percentuale di votanti al primo turno. Al Senato, il sistema premia le maggioranze regionali (oggi in 17 casi su 20 del Pd) cioè almeno 60 seggi su 100.
Continuano a ripeterci che però il titolo I della Costituzione, quello relativo ai diritti non verrà mai toccato, non è vero. Basti pensare che con le nuove competenze del Senato sparisce la doppia lettura delle leggi che riguardano i diritti fondamentali dei cittadini.
Sì perché con la “riforma Boschi-Renzi-Alfano-Verdini” viene cancellato il bicameralismo perfetto (che a dire dei “riformatori” allungava eccessivamente l'iter legislativo) e ridotto a 100 il numero dei senatori che saranno 74 consiglieri regionali, 21 sindaci di grandi città e 5 nominati dal Presidente della Repubblica e che resteranno in carica per 7 anni. Unici senatori a vita saranno gli ex presidenti. Il nuovo Senato non voterà più la fiducia al governo. Solo la Camera avrà funzioni di controllo sull'esecutivo e, in caso di reati commessi nell’esercizio del loro mandato, potrà dare l'autorizzazione a procedere nei confronti del premier e dei ministri.
Il Senato sarà competente solo per le leggi costituzionali, le leggi di bilancio (che dovrà esaminare in soli 15 giorni e votare a maggioranza assoluta), la ratifica di trattati internazionali concernenti l'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, le leggi elettorali degli enti locali e quelle sui referendum popolari. Comunque, ogni disegno di legge approvato dalla Camera verrà trasmesso al Senato che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, potrà disporne l’esame. Nei trenta giorni successivi, Palazzo Madama potrà deliberare, a maggioranza assoluta, proposte di modifica del testo. In tutti i casi, la Camera si pronuncerà definitivamente senza dover necessariamente tener conto delle richieste emendative avanzate dal Senato.
Paradossalmente, si crea il Senato delle autonomie e contemporaneamente si abbandona il federalismo.
Per quanto riguarda Montecitorio, l'agenda sarà prevalentemente dettata dal governo. Ad esempio, i provvedimenti che quest'ultimo ritiene fondamentali per l’attuazione del proprio programma dovranno essere esaminati in via prioritaria e votati entro 70 giorni (con una possibile proroga di altri 15).
Sta di fatto che scelte dirimenti per il paese saranno prese da una sola Camera, così, ad esempio, per la dichiarazione dello stato di guerra. Serviirà la maggioranza assoluta, che però coincide con quella che il primo partito si vedrà garantita dal premio elettorale. Resta, però, l’articolo 60 della Costituzione, in base al quale dopo la dichiarazione di stato di guerra, con una legge ordinaria si possono prolungare la durata della legislatura e rinviare le elezioni.
I futuri senatori non riceveranno alcuna indennità aggiuntiva ma godranno dell’immunità parlamentare. Come dire che se ci fosse stato già il nuovo Senato i consiglieri regionali coinvolti in rimborsopoli o quei sindaci di grandi città che hanno fatto un uso allegro della carta di credito del comune sarebbero stati inattaccabili e non si sarebbero dovuti dimettere come è invece accaduto.
Per assurdo, proprio quella classe politica che è rimasta coinvolta nei peggiori scandali degli ultimi anni siederà a Palazzo Madama e godrà pure dell'immunità.
Quanto ai risparmi derivanti dalla cancellazione del Senato, secondo la Ragioneria dello Stato saranno pari a 50 milioni (attualmente si spendono 510mln) perché tutto il resto della macchina resta in moto, pensioni agli ex senatori comprese.
Per l’elezione del presidente della Repubblica, che sarà votato oltre che dai parlamentari dai “nuovi” senatori, cambia il quorum: nelle prime tre votazioni resta di due terzi dei componenti l'assemblea. Mentre, dalla quarta, il quorum si abbassa a tre quinti e dalla settima ai tre quinti dei votanti, pari a 438 voti, qualcuno più della maggioranza.
In caso di impedimento permanente, morte o dimissioni sarà il presidente della Camera, e non più quello del Senato, a sostituire il presidente della Repubblica “ad interim”.
Altra stretta alla democrazia riguarda i referendum. Per presentarli ora occorreranno 800mila firme. Ma non basta, dopo le prime 400mila, la Corte costituzionale dovrà dare un parere di ammissibilità. Così per presentare proposte di legge di iniziativa popolare, il numero di firme necessarie viene triplicato: da 50mila a 150mila. Unico contentino, vengono introdotti i referendum propositivi e di indirizzo, ma perché ciò avvenga prima le Camere dovranno varare una legge che ne stabilisca le modalità di attuazione.
Altra modifica riguarda la Consulta, i 5 giudici di nomina parlamentare verranno eletti 2 dal Senato e 3 dalla Camera con due distinte votazioni, e non più in seduta comune. Per la loro elezione occorre la maggioranza dei due terzi dei componenti per i primi due scrutini e dagli scrutini successivi i tre quinti.
L'unico cambiamento positivo è la cancellazione del Cnel, ma non tutto e subito. Entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge verrà nominato un commissario straordinario a cui sarà affidata la liquidazione e la ricollocazione del personale presso la Corte dei conti.
Una cancellazione ambigua è quella delle Provincie: le Regioni ‘virtuose’ potranno delegare ad esse istruzione e formazione professionale.
Così pure sono rimandate le pari opportunità sia politiche che di genere, occorrerà la stesura all'interno dei regolamenti parlamentari di uno statuto delle opposizioni che conterrà anche i principi fondamentali per promuovere l’equilibrio di genere tra uomini e donne nella rappresentanza.
Insomma, le solite dichiarazioni di principio che tali resteranno, come quella che prevede oltre al buon andamento delle amministrazioni, che le leggi che regolano gli uffici pubblici dovranno assicurare la trasparenza.
Infine, d'ora in poi, le leggi elettorali prima della loro promulgazione potranno essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Consulta. Il ricorso motivato dovrà essere presentato, entro 10 giorni dall’approvazione della norma, da almeno un quarto dei componenti della Camera o almeno un terzo dei componenti del Senato. La Consulta si pronuncerà nei successivi 30 giorni. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale la legge non sarà promulgata.
Si chiude la stalla dopo che i buoi sono usciti perché è stata demolita la Carta costituzionale da parte di chi è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale.
Per il via libera definitivo ci vorranno altri passaggi e in caso di ulteriori modifiche sarà necessario il voto della maggioranza assoluta. Come sarà composta?
Speriamo che nel frattempo qualcosa cambi e, soprattutto, che i cittadini, quando tra un anno saranno chiamati a votare per il referendum confermativo, abbiano capito quali sono i rischi che corrono e boccino questo ennesimo attacco alla democrazia.
Un assaggio l'hanno già avuto: nemmeno un emendamento delle minoranze è stato approvato.