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Giovedì, 28 Mar 2024

Siamo arrivati a metà del 2017 ma il quadro generale dell’economia internazionale non è dissimile da quello che chiudeva il 2016. Questi primi sei mesi dell’anno si sono caratterizzati per l’alto tasso di vicende politiche, circostanza che accompagnerà anche i prossimi sei mesi del 2017, e una sostanziale conferma delle politiche economiche che i principali paesi hanno seguito per tutto l’anno scorso. L’economia internazionale si sta lentamente trascinando fuori dalla crisi e l’Europa sta facendo la sua parte. Ma le situazioni rimangono complesse, aggrovigliate in problemi che non riescono a trovare una soluzione per la semplice ragione che i problemi affondano nella radice delle società.

Poiché è difficile, per non dire impossibile, avventurarsi in previsioni sul futuro prossimo, è molto più utile riepilogare lo stato dell’economia internazionale giovandoci dell’esame più recente che abbiamo a disposizione, ossia la relazione annuale della Banca d’Italia sul 2016, pubblicata la settimana scorsa, che contiene un interessante capitolo dove si fa un quadro sintetico dello stato dell’arte nelle principali economie del pianeta fuori dall’Europa che, inevitabilmente, sono destinate a influenzare anche le future politiche europee. Un’ottima introduzione che consente di capire meglio l’evoluzione della nostra economia, della quale però ci occuperemo la prossima settimana.

Come premessa, giova ricordare, che nel 2016, l’economia globale è cresciuta meno delle attese, il 3,1%, un po’ perché i paesi emergenti sono stati meno vitali del solito, un po’ perché negli Usa e in Uk la crescita è stata meno brillante del previsto, una situazione che né l’eurozona né il Giappone sono riusciti a compensare. Gli eventi principali dell’anno scorso sono stati il referendum di giugno sulla Brexit e poi la tenue ripresa dell’inflazione incoraggiata dall’aumento del petrolio in qualche modo favorito dall’accordo di Vienna del 30 novembre. Inoltre si è rafforzata la divergenza delle politiche monetarie fra la Fed, che ha continuato ad alzare i tassi, e così ha fatto anche nei primi mesi di quest’anno, e l’eurozona e il Giappone, che mantengono politiche espansive.

Se spostiamo l’attenzione sui principali paesi avanzati, esterni all’eurozona, osserviamo che, nel complesso, queste economie sono cresciute dell’1,7%, lo 0,2% in meno del 2015, e sotto le ultime previsioni del Fmi. La voce principale che ha guidato la crescita è stata il consumo, ma la produttività è cresciuta molto poco: appena lo 0,6% fra il 2010 e il 2016, a fronte dell’1% fra il 2000 e il 2007. E questo è il vero tallone d’Achille del futuro prossimo venturo.

Figura 1 1

Stati Uniti. Nel 2016, il Pil è cresciuto dell’1,6%, un punto in meno rispetto al 2015 e 0,8 punti in meno rispetto alle previsioni del Fmi. A guidare la crescita sono stati il consumo privato e gli investimenti, pure se con meno forza rispetto all’anno precedente, mentre l’export ha avuto un’importanza relativa assai più contenuta pure se positiva, malgrado il dollaro si sia apprezzato rispetto alle altre valute. Per quest’anno, la crescita prevista è del 2,3%, con qualche aspettativa al rialzo qualora diventasse norma la promessa di stimoli fiscali che dovrebbe seguire alla revisione della tassazione presentata dall’amministrazione Trump lo scorso 26 aprile. Tale proposta prevede la riduzione delle aliquote sulle persone fisiche e sulle imprese, nonché la possibilità che le imprese Usa rimpatrino i profitti esteri a condizioni agevolate. Ma pure questo è ancora solo un progetto. Sul versante del lavoro, gli Usa hanno continuato a creare occupazione, con un tasso di senza lavoro arrivato al 4,7% e un tasso di sottoccupati, ossia coloro che lavorano part time o che vorrebbero lavorare ma non cercano attivamente occupazione, scesa dal 9,9 al 9,2%, anche se ancora si è lontani dall’8% rispetto a prima della crisi. In ogni caso, i salari sono cresciuti e ciò ha contribuito all’aumento dell’inflazione di fondo (ossia al netto di energie e alimenti freschi), che è salita all’1,7%. Siamo vicini quindi al target del 2% previsto dagli statuti della Fed. Quest’ultima ha alzato i tassi dello 0,25% a dicembre 2016 e a marzo e nella stessa seduta si è anche iniziato a discutere dell’opportunità di far dimagrire il bilancio della Banca centrale che, in conseguenza del QE, è arrivato al 24% del Pil.

figura 1 2

Giappone. La crescita nel 2016 è stata dell’1%, lo 0,5% in più delle attese, per lo più grazie all’aumento dei consumi e degli investimenti che si sono concentrati nel comparto residenziale. Degno di nota il fatto che l’export abbia fornito un contributo alla crescita malgrado l’apprezzamento dello yen. Ma altrettanto interessante è osservare la parabola dell’interventismo giapponese che dal lontano 2013 ha provocato un vero bombardamento monetario e fiscale sull’economia nazionale. Ciò che il Giappone ne ha ottenuto, tuttavia, non è certo all’altezza dello sforzo profuso. La produttività del lavoro è ben al di sotto del livello pre crisi, e anche l’inflazione è rimasta bassa. Nel 2016 il valore medio, sottolinea Bankitalia, è stato negativo per lo 0,1%, dal +0,8% del 2015, e anche l’inflazione di fondo che era risalita all’1,2%, per lo più spinta dall’aumento delle tasse indirette, si è quasi del tutto annullata a fine anno. Ciò ha influenzato le aspettative di inflazione, scese all’1,3%, e ha spinto la banca centrale a un impegno ulteriore annunciato nel settembre scorso. In particolare, la BoJ opererà per tenere i tassi a dieci anni a un livello prossimo allo zero e ha indicato di voler portare l’inflazione per un periodo prolungato di tempo sopra l’obiettivo di medio e lungo periodo fissato al 2%. Inoltre, per sostenere la domanda il governo ha varato ad agosto un’espansione di bilancio dell’1,5% del pil e ha rinviato a ottobre 2019 il secondo aumento della tassa sui consumi, di fatto, mettendo in discussione il raggiungimento dell’obiettivo di avere un avanzo primario sul bilancio entro il 2020. Insomma, il Giappone è ancora avvitato nella sua spirale ventennale di bassa crescita e bassa inflazione.

Regno Unito. L’UK finora non ha subito ricadute all’indomani del referendum sulla Brexit, probabilmente anche in ragione della politica monetaria che rimane espansiva. Il pil è cresciuto dell’1,8% e la disoccupazione è diminuita di tre decimi, portandosi al 4,8%, provocando una modesta crescita dei salari. L’inflazione è giunta all’1,6% in parte anche a causa della svalutazione della sterlina seguita al referendum. Per evitare rallentamenti, la Banca d’Inghilterra ha ridotto dello 0,25% il tasso e riavviato gli acquisti di titoli del Tesoro nonché nuovi programmi che prevedono anche l’acquisto di obbligazioni private e prestiti più estesi alle banche commerciali. In sostanza, ha potenziato il QE. Questo mentre il governo ha deciso di frenare sul percorso di consolidamento del bilancio. Un Giappone in sedicesimo, insomma. Ovviamente, su tutto ciò grava l’ipoteca delle elezioni – che non hanno prodotto una maggioranza certa – e quella dei negoziati per l’Ue per il futuro della Brexit. Tutti temi che rendono del tutto imprevedibile l’andamento dell’economia britannica, che rimane uno dei principali punti interrogativi – nonché di turbolenza – del contesto internazionale.

Cina. Se spostiamo il focus sulle principali economie emergenti, la più importante da osservare è senza dubbio la Cina che rappresenta ormai da anni la migliore opportunità – e insieme il più grande problema – potenziale dell’economia internazionale. Nel 2016 il paese è cresciuto del 6,7%, in calo di 0,2 punti rispetto al 2015 ma, soprattutto, grazie al sostegno pubblico dell’economia che ha stabilizzato il prodotto nel secondo semestre dell’anno. Il 2016 è stato l’ennesimo anno di transizione per l’economia cinese che sta cercando con fatica di usare come driver della crescita la domanda delle famiglie e dei servizi invece dei notevoli investimenti pubblici – che comunque ci sono stati – del passato. I consumi, infatti, hanno guidato la crescita del prodotto, pesando circa 4,3 punti sul totale, mentre gli investimenti hanno fornito altri 2,8 punti. La domanda estera, tradizionale cavallo di battaglia dell’economia cinese insieme agli investimenti pubblici, ha dato invece un contributo negativo di 0,5 punti. E’ opportuno sottolineare che il settore privato ha notevolmente rallentato nel 2016 costringendo il governo a premere sull’acceleratore di quello pubblico per compensare il calo e rispettare il target. E, come al solito, si è usata la leva degli investimenti in infrastrutture, cresciuti del 10% in media, con conseguente aumento dei debiti per le amministrazioni locali, che hanno aumentato la già rilevante montagna del debito nazionale, con quello delle imprese arrivato al 170% del pil, il 705 in più rispetto al 2008. La bassa redditività di questi investimenti ha generato un robusto calo delle sofferenze “il cui ammontare – nota Bankitalia – rimane tuttavia di valutazione incerta”. Degna di nota la decisione dell’anno scorso, che però ha avuto ancora poche conseguenze, che consente alle banche di convertire in capitale di rischio i crediti detenuti verso imprese momentaneamente non solvibili. A livello fiscale, il Fmi ha calcolato che il deficit del governo sia intorno al 3,7% del pil, con un debito pubblico al 50%, a fronte però di finanze locali fragili e poco trasparenti. Sul versante della politica monetaria, la banca centrale ha stretto un po’ i cordoni della borsa, forte della circostanza della stabilizzazione della crescita, ma ciò ha finito col provocare tensioni sul mercato obbligazionario e quello interbancario.

India. E’ la nuova grande speranza dei paesi emergenti, dopo che la Cina, col suo modello di sviluppo, ha iniziato a mostrare crepe sempre più evidenti. La crescita si è mantenuta al 7% grazie ai consumi e agli investimenti pubblici che hanno compensato quelli privati, cresciuti debolmente anche a causa delle politiche restrittive del settore bancario, praticamente dominante visto che le banche statali hanno in pancia il 70% degli attivi bancari e esibiscono bilanci gravati da numerose sofferenze. Nella parte finale dell’anno, l’attività economica ha rallentato parecchio dopo la decisione del governo di ritirare dalla circolazione oltre l’85% delle banconote per sostituirle con altre di nuova emissione al fine di contrastare l’evasione e il riciclaggio. L’inflazione si è portata sotto il target del 5% perseguito dalla banca centrale e questo ha consentito di impostare una politica monetaria moderatamente espansiva. Il deficit del governo ha raggiunto il 3,5% del pil, mentre il deficit degli stati federali - responsabili di trasporti pubblici, sanità e sicurezza - è aumentato.

Brasile. Il paese sudamericano ha vissuto un altro anno orribile, alle prese con una nuova contrazione del prodotto che, a fine 2016, ha pesato il 3,6%. La domanda debole, schiacciata dall’elevato indebitamento di famiglie e imprese e dalla situazione difficile del mercato del lavoro, ha condotto a un calo dei consumi del 4,3% e degli investimenti del 10% che ha portato quasi al 30% il crollo dal 2014. Ciò ha avuto come effetto un calo del deficit delle partite correnti sulla bilancia dei pagamenti e dell’inflazione, scesa al 4,1%. Il combinato disposto ha consentito alla banca centrale di allentare le politiche monetarie. Da ottobre i tassi sono stati diminuiti di 300 punti base, arrivando all’11,25%. Al contempo, però, il bilancio dello stato ha subito un drastico peggioramento, con un disavanzo arrivato al 9% del pil e il debito cresciuto al 78%.

Russia. La Russia sembra avviata verso una sostanziale stabilizzazione dell’economia, dopo le difficoltà degli anni passati, seguite al crollo delle quotazioni petrolifere. Nel 2016, il pil è rimasto sostanzialmente stazionario, conseguenza della ripresa delle quotazioni, visto che dal petrolio dipende oltre la metà degli introiti da esportazioni e delle entrate fiscali. L’inflazione è tornata verso l’obiettivo della Banca centrale e ciò ha consentito un certo allentamento delle condizioni monetarie. Le previsioni per quest’anno e i prossimi sono di una crescita contenuta, visto che la Russia dovrà fare i conti con un prezzo del petrolio che si prevede al livello attuale a lungo, e un consolidamento necessario a stabilizzare i conti pubblici.

Questo quadro, necessariamente sintetico è analitico, abbastanza, comunque, da fornire tutti gli strumenti di osservazione necessari a valutare l’andamento delle economie extra Ue nei mesi a venire. Ovviamente quelle più interessanti sono quelle più problematiche: in particolare gli Usa e la Cina. Fra pochi mesi, Trump celebrerà il suo primo anno da presidente e, di sicuro, sarà l’occasione per fare un po’ di conti. Finora il bilancio è magro. Speriamo che l’estate porti consiglio.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

L’articolo è stato pubblicato anche sul n. 27 di Crusoe, newsletter in abbonamento prodotta da Slow News.

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