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Venerdì, 19 Apr 2024

Salvare l’Università italiana" è il titolo di un saggio, di recente pubblicato da Il Mulino, con il quale gli autori, tre docenti universitari (Giliberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri), si propongono di rilanciare, “oltre i miti e i tabù”, come recita il sottotitolo, il dibattito sulla nostra Università, oggetto di reiterate riforme e pur incapace di rinnovarsi dopo oltre 25 anni di autonomia.

Il tema, che grazie a recenti indagini empiriche (su questo giornale, ampio spazio abbiamo a suo tempo dedicato, in particolare, a quella della Fondazione RES) sta finalmente uscendo dai confini angusti degli addetti ai lavori, è qui affrontato, mettendo insieme le diverse competenze degli autori, con un approccio interdisciplinare, in quanto ritenuto indispensabile per capire meglio i problemi e disegnare soluzioni coerenti e efficaci. Proprio di contro alla molteplicità di dati che emergono dalle indagini sopra richiamate, gli autori denunciano innanzitutto una “relativa povertà delle interpretazioni che circolano nel dibattito pubblico”, che appare imbrigliato tra opposte posizioni/narrazioni, esito di aprioristiche convinzioni, divise tra l’ostilità preconcetta al cambiamento e l’apertura fideistica a ogni novità.

Gli autori dichiarano che il loro intento è, invece, quello di proporre una interpretazione della situazione, “indubbiamente preoccupante”, dell’Università italiana, fondata su alcune soluzioni chiare e comprensibili anche ai non addetti ai lavori. Nello specifico, il volume si articola in tre parti. La prima, introduttiva, ripercorre i principali aspetti della crisi e mostra come questa sia la conseguenza di una serie di cause, in primis e soprattutto l’assenza di una chiara strategia-paese sull’Università e dell’incapacità della classe dirigente di guidarne l’evoluzione. Successivamente, vengono esaminate le colpe dei diversi attori operanti nel settore: gli atenei e i professori, ma anche il modo in cui il dibattito sull’Università si è andato sviluppando intorno a parole-chiave come “mercato, competizione, gestione manageriale, eccellenza, merito, valutazione”. Un dibattito che ha registrato una divaricazione netta fra gli alfieri della logica neoliberale, da un lato, e soprattutto gli umanisti, dall’altro, che, richiamandosi ai valori della sinistra tradizionale, tendono a contrapporsi a ogni processo di trasformazione.

Dal canto loro, gli autori si dicono convinti che le prospettive descritte siano da considerare entrambe allarmanti, in quanto preludono o a un lento declino ovvero al prevalere di ricette orientate alla de-regolazione e al mercato. Premesso che basta individuare due o tre aree di intervento possibile, “capaci di funzionare come detonatori di un mutamento più ampio”, gli autori ne indicano esplicitamente due: 1) l’allocazione di una quota del finanziamento pubblico delle università mediante lo strumento (introdotto per la prima volta in Francia nel 1988 e ora adottato in molti paesi sia europei che asiatici) della “contrattualizzazione” (termine che ha già un suo significato, sicché era forse meglio adottarne un altro), in base al quale ogni singolo ateneo accetta, in cambio di risorse finanziarie, specifici obiettivi negoziati con il centro; 2) l’aggregazione dei dottorati di ricerca in poche grandi Scuole come strumento per innescare un processo di “differenziazione intelligente” interna agli atenei, capace di indurre ciascun dipartimento a specializzarsi in quelle attività nelle quali ha maggiori probabilità di eccellere.

Entrambi gli interventi potrebbero essere fatti a legislazione invariata e risulterebbero capaci di innescare un circolo virtuoso: in particolare, il primo consentirebbe di governare meglio il sistema, “rispettando le specificità di ogni singolo ateneo ma, al tempo stesso, coordinando il comportamento delle singole università al fine di raggiungere obiettivi comuni” (come, ad es., l’incremento del numero dei laureati); il secondo intervento, invece, stimolerebbe ciascuna università a definire la propria vocazione a una specifica combinazione di funzioni per ciascuna delle aree disciplinari al suo interno, tenendo conto delle risorse disponibili e delle esigenze del territorio di riferimento, con la ricaduta di forti premi se i risultati su cui ha puntato sono poi valutati come ottimi, ma di nessun premio (naturalmente mantenendo il finanziamento ordinario) se ha svolto un po’ tutte le funzioni a un livello di qualità media.

L’auspicio è che il circolo virtuoso che si andrebbe a innescare possa spiegare i suoi effetti anche sul reclutamento dei docenti, tematica non affrontata ex professo dagli autori del volume, ma che costituisce un punto dolente del sistema, come attestato dalla cospicua massa di sentenze che ne trattano.

Restando in argomento, poiché gli stessi autori riconoscono che non ogni buon ricercatore è anche un buon docente, ci sembra giusto suggerire il reinserimento, nel concorso per l’abilitazione, della prova didattica, ora abolita.

Quanto, infine, alla “differenziazione”, c’è il rischio che con essa si avvantaggerebbero alcune università, ossia quelle già forti e “attrezzate”, a scapito di altre, senza dimenticare poi che, l’assenza di dottorati in alcune sedi, costringerebbe gli studenti a trasferirsi in quelle dove questi sono stati istituiti, con non trascurabili aggravi di spese per le loro famiglie.

Insomma, ci sembra che le ricette proposte, se applicate, non farebbero che peggiorare la situazione perché, da un lato, porterebbero gli atenei a perdere la libertà di ricerca e, dall'altro, a iperspecializzarsi, un po' come accade nell'università americana.

Chi scrive ritiene, invece, che nell'università italiana occorra una maggiore interdisciplinarità, un maggior dialogo tra atenei, sia per ottimizzare le risorse che per mettere in circolo le eccellenze che ci sono.

Il vero problema dell'università italiana è, e resta irrisolto, il nepotismo, che genera scarsa trasparenza delle procedure di selezione. Una situazione che, se non risolta, porterà inevitabilmente al declino, continuando a premiare i clientes piuttosto che i migliori.

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