La mia sera del Ventesimo secolo e altre piccole svolte di Kazuo Ishiguro, editore Einaudi, Torino, 2018, pp. 36, euro 9.
Recensione di Roberto Tomei
Kazuo Ishiguro ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2017 e quella riportata nel libro è la lezione tenuta al momento del conferimento del premio davanti all’Accademia di Svezia, che, sono parole sue, “ha fatto del Premio Nobel un luminoso simbolo del bene per il quale lottano gli esseri umani”, espressione, col senno di poi, forse troppo esagerata, se pensiamo alle recenti vicende che hanno portato a non assegnare il Nobel nel 2018.
La “lezione” di Ishiguro si può idealmente dividere in due parti: la prima riguarda la sua poetica, ossia il modo in cui sono nati i suoi libri; la seconda descrive il suo sguardo sul mondo di oggi, nel tentativo di distinguerne i contorni dentro la fitta nebbia che l’avvolge. In particolare, è uno sguardo sul mondo che le nuove generazioni di scrittori stanno affrontando e sul destino della letteratura.
A suo parere, anche se è “improbabile raddrizzare il mondo intero”, si può provare a allestire una minuscola porzione di edificio, un angolo di letteratura, in cui si legge, si scrive, si pubblica. Sarà comunque indispensabile accrescere le diversità, secondo due accezioni: innanzitutto, investire energie nella ricerca di gioielli provenienti da quelle che tuttora rimangono culture letterarie sconosciute; in secondo luogo, impegnarsi a non definire in modo riduttivo e tradizionale ciò che significa buona letteratura, incoraggiando e rendendo il dovuto omaggio ai nuovi scrittori, con l’obiettivo di “una grande umanità in cui ritrovarci”.
Molto più interessante appare, però, la prima parte della “lezione”, in cui l’autore ci rivela come in tante occasioni sia stata la voce di un cantante a fornirgli insegnamenti fondamentali. Così è avvenuto, ad esempio, dopo i romanzi di ambientazione giapponese, per “Quel che resta del giorno”, il suo primo romanzo inglese, anzi di una ” inglesità” assoluta, quasi mitica, i cui contorni erano già presenti nella fantasia di molte persone in tutto il mondo. Ishiguro ci rivela, infatti, che, ultimato il romanzo, mentre ascoltava Tom Waits cantare Ruby’s Arms, si rese conto che aveva ancora qualcosa da rivedere e, verso la fine della storia, individuò con estrema cura il punto dove rompere la corazza del maggiordomo e lasciare intravedere la tragica vastità del suo desiderio inappagato. Egli aggiunge, infine, che in molte altre occasioni si è ripetuta la stessa circostanza, nel senso di aver ricevuto ispirazione dalla voce di un cantante, non tanto dai testi delle canzoni quanto dal canto stesso.
Apprendiamo così come le svolte decisive per uno scrittore possano spesso dipendere da eventi marginali, “quiete scintille di rivelazione personale”, fermo restando che fondamentale è trasmettere sensazioni, poiché, alla fine, “tutto si risolve in una persona che dice a un’altra: questo è ciò che sento io. Riesci a capire quello che dico? E’ lo stesso anche per te?”