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Giovedì, 25 Apr 2024

L’estate ormai alle nostre spalle ha reso chiaro, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il destino più probabile verso il quale il mondo ha scelto di incamminarsi è quello del disaccordo.

Svariati no-deal incombono sulle cronache e pure noi ne abbiamo patito le ansie durante la transizione dal governo del cambiamento al cambiamento di governo. E questo accadeva mentre altri rischi di no deal, assai più sistemici di quello del nostro condominio, continuano a covare dietro la sottile filigrana delle relazioni economiche internazionali.

Quello più vicino a noi è quello fra UK e UE, che entro il 31 ottobre dovranno chiudere la lunga (e stucchevole) vicenda della Brexit. L’ipotesi di no deal si fa di giorno in giorno più concreta, come ha ricordato a Jackson Hole il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney e come ormai sembra probabile dopo le ultime baruffe parlamentari. E che questo evento sia potenzialmente distruttivo è chiaro a tutti. Non solo per ragioni economiche. La questione irlandese rischia di riemergere dalla cenere della storia con tutto il suo potenziale esplosivo, sia che venga accettato il backstop proposto dall’UE, che comporterebbe il confine aperto fra le due Irlande e quindi la permanenza dell’UK nell’unione doganale europea a dispetto della Brexit, sia che la frontiera venga materialmente chiusa, come è facile possa accadere se non ci sarà un accordo. Chiunque sia cresciuto negli anni ’80, ricorderà bene la tragedia irlandese e certamente non si augura un revival. Ma a quanto pare, la seduzione del disaccordo, che ha rapito i nostri spiriti in barba a qualunque raziocinio, sembra irresistibile.

Ne abbiamo chiara evidenza osservando quell’altro tavolo dal quale dipende gran parte della salute economica di questo inizio secolo: quello aperto fra Usa e Cina per cessare la lotta commerciale innescata proditoriamente dall’amministrazione Trump, che evidentemente subisce più di altri la seduzione del disaccordo malgrado dovrebbe esserle chiaro che gran parte del benessere degli Usa dipende da quello degli altri, Cina compresa. E tuttavia, ormai le relazioni fra Cina e Usa, aldilà delle ragioni che la alimentano, sembrano deteriorate abbastanza da sembrare difficilmente recuperabili. Un accordo commerciale potrebbe servire a svelenire il clima, ma non certo a restituire la fiducia. Mettere dazi è tanto facile quanto è difficile toglierli. E se è vero che nel 2020 gli Usa torneranno alle urne e forse eleggeranno un presidente meno facinoroso, è vero altresì che gli americani potrebbero rieleggere Trump. Nulla di cui stupirsi: il nostro tempo sembra premiare proprio costoro, gli alfieri del disaccordo. E forse non è un caso.

C’è molto di paradossale in quello che stiamo vivendo, al punto che diventa naturale pensare che troppa pace e benessere abbiano generato il desiderio di fare la guerra. O, per dirla con le parole di un altro banchiere centrale, stavolta in forza alle Bce, Ewald Nowotny, “la fortuna di un periodo di pace che dura ormai 74 anni ha inevitabilmente portato a un enorme accumulo di ricchezza da un lato e di debito dall’altro”. Che poi è la declinazione economica del nostro paradossale tempo politico. “Nel passato – aggiunge – la guerra o un’alta inflazione hanno effettivamente risolto questo problema. Come risolverlo oggi senza questi due fattori è una questione che rimane aperta”.

Questo enorme paradosso, all’origine della seduzione del disaccordo, ne genera infiniti illustrati ogni giorno dalle cronache. Anche limitandoci ai soli fatti economici, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Sempre Carney, nel suo intervento, nota come “il principale ostacolo economico sia rappresentato dalla debolezza degli investimenti delle imprese, che negli ultimi anni hanno ristagnato, nonostante la poca capacità produttiva disponibile, i bilanci solidi, le condizioni finanziarie supportative e un tasso di cambio altamente competitivo”. Potrebbero, insomma, ma non vogliono. Carney ipotizza che tale svogliatezza sia figlia dell’incertezza che aleggia sulla Brexit, la madre di tutte le incertezze britanniche a quanto pare, tanto più oggi che il rischio di no deal è cresciuto significativamente. Il che sembra sensato, ma forse non esaustivo.

Sempre Carney, peraltro, nota come nel mondo girino circa 16 trilioni di dollari di titoli scambiati a rendimenti negativi. Ma forse le lenti da banchiere centrale gli impediscono di notare che questa circostanza è perfettamente complementare con l’altra. Le condizioni finanziarie ideali, che però non incoraggiano gli investimenti, sono le stesse che hanno trasformato il denaro in un costo per i creditori. Come si fa a non pensare che questo non abbia sfinito gli animal spirits? Davvero può esistere un capitalismo finanziario a tassi negativi?

Ed ecco perché sul vertice di Jackson Hole, altro evento clou di questo scampolo di estate, meno gettonato degli anni scorsi vista la qualità delle defezioni (in primis il presidente della Bce), hanno aleggiato come ospiti indesiderati due singolari comprimari: il senso di inadeguatezza e il dollaro americano.

A molti parrà bizzarro, ma il succo del vertice è stato tutto qua. I banchieri centrali non si peritano ormai di ammettere che non sanno sostanzialmente quello che fanno. O, per meglio dire, sanno perfettamente che quello che fanno non serve (o serve poco) a risolvere i problemi che in qualche modo hanno contributo a generare. E al tempo stesso ammettono che non hanno granché idea di quello che dovrebbero fare. E questo in parte spiega perché nel mondo politico nascano suggeritori interessati del tipo: finanzia i miei deficit del tesoro e non ci pensare. E qui veniamo al secondo comprimario: il dollaro americano.

Carney, sempre lui, ha dedicato buona parte del suo intervento all’idea di una moneta digitale condivisa dalle banche centrali, che di fatto sostituisca il dollaro nel suo ruolo di moneta internazionale. La suggestione tecnica, che arriva nel momento in cui il ruolo stesso delle banche centrali viene questionato da idee come quella di Libra e dallo sviluppo del fintech, non basta a celare l’intento politico. La supremazia finanziaria del dollaro ormai, ma sin dai tempi del dilemma di Triffin (1960), viene agevolmente riconosciuta come una delle ragioni dell’instabilità finanziaria alla quale sembriamo condannati. E la soluzione più semplice da tempo sembra quella di sostituire tale supremazia con uno strumento tecnico di emissione internazionale. Nulla di nuovo: ci aveva già provato il Fmi con i Diritti speciali di prelievo. Come se davvero l’ordine monetario internazionale si possa contrattare a tavolino o, meglio ancora, se davvero gli Usa fossero disposti a cedere il loro “privilegio esorbitante”.

Fuori dalle complicazioni contemporanee, il punto evidente è che la pax americana, che tanti privilegi ha garantito e tanto benessere ha diffuso, sembra sia venuta a noia. Persino agli americani. O, quantomeno, se ne osservano contriti gli svantaggi, essendo ormai abituati ai vantaggi. Bisognerà capire se chi lotta contro l’ordine internazionale di marca Usa prevarrà su chi lotta per difenderlo. Ma in ogni caso, che siate per gli uni o per gli altri, la mattina alzatevi e lottate.

Buon inizio di stagione.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

 

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