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Mercoledì, 24 Apr 2024

Con sentenza n.19610/2020, pubblicata il 18 settembre scorso, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso presentato da un lavoratore-studente al quale il datore di lavoro aveva negato il permesso allo studio in quanto “fuori corso”, così confermando le precedenti decisioni assunte dal Tribunale di Ravenna, prima, e dalla Corte di Appello di Bologna, dopo.

In particolare, per la Corte territoriale, la norma contrattuale (art. 28 del ccnl applicabile al lavoratore) deve intendersi riferita “solo agli iscritti al corso legale di studi universitari, poiché opera riferimenti all'ultimo e al penultimo anno di corso, che non avrebbero concreto significato se non con riguardo a una fisiologica durata del corso di studi”, per cui non può “il legislatore aver riconosciuto al lavoratore il diritto a permessi retribuiti per seguire le lezioni senza limiti, cioè al di fuori della durata legale del corso e a prescindere dal superamento o meno degli esami sostenuti per i corsi seguiti”.

Per il ricorrente, l’interpretazione della Corte di Appello era da ritenersi discriminatoria, a motivo che “tanto la frequenza ai corsi quanto la preparazione degli esami e la partecipazione agli stessi costituirebbero attività didattica consentita dallo status di studente universitario a prescindere dall'essere 'in corso' o 'fuori corso', poiché ritenere diversamente aggiungerebbe un limite ulteriore a quelli previsti dalla norma (contrattuale, ndr) che pone solamente il limite di misura massima fruibile di 150 ore annue per ciascun dipendente, il limite del 3% del totale delle unità in servizio, per anno solare, oltre che la possibilità per il lavoratore che venga respinto di fruire dei suddetti permessi solamente la seconda volta perché gli esami abbiano esito positivo”.

La prospettazione dello studente-lavoratore, però, non ha convito i Giudici della Suprema Corte che, invece, hanno ritenuto l’impugnata decisione della Corte di Appello di Bologna esente da censure, atteso che “ha formulato una lettura coerente e logica della norma, basata non solo sulla sua esegesi letterale ma anche sulla sua ratio, che si sottrae alle critiche formulate e non appare in contrasto con le norme di legge invocate” e che "ha correttamente posto in rilievo che la norma dell'art. 28 si riferisce alla ‘frequenza’ di corsi di studio universitari, attività chiaramente riservata ad un numero delimitato di anni, quelli coincidenti con il corso legale di studi e che la norma sarebbe stata formulata diversamente, ove lo svolgimento di attività didattiche preordinate alla preparazione degli esami dovesse essere considerato fungibile alla frequentazione delle lezioni per gli anni in corso regolare”.

Al rigetto del ricorso ha fatto seguito la condanna il ricorrente al pagamento, in favore del datore di lavoro, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 3.500,00 per compensi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.

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