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Venerdì, 29 Mar 2024

Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio, Einaudi Editore, Collana: Supercoralli, 2020, pp.168, euro 18,00.

Recensione di Adriana Spera

Tre anni fa con L’Arminuta - suo terzo romanzo dopo Mia madre è un fiume e Bella mia - Donatella Di Pietrantonio, per molti, rappresentò la scoperta di una di quelle scrittrici che possono fare la storia della letteratura di un paese, sempreché confermino quello spessore nelle opere successive. Ebbene, si può dire che ora, con Borgo Sud, quella conferma c’è stata, vuoi per la profondità delle vicende narrate, vuoi per la scrittura asciutta che si traduce in romanzi, sempre sotto le 200 pagine ma, intensi e coinvolgenti come fossero di centinaia di pagine.

Una capacità sempre più rara e che tanto ci ha fatto amare il nostro mitico Andrea Camilleri.

Ma se lo scrittore siciliano riusciva ad affrontare con ironia anche le tragedie e a trasformare anche le situazioni più drammatiche in episodi di rara comicità, al centro delle opere della Di Pietrantonio ritroviamo, invece, sempre la sofferenza, l’amore-odio, che a volte c’è nei rapporti familiari e, in particolare, tra madri e figlie e l’abbandono materno. Le famiglie narrate non sono alla "Mulino Bianco", non sono unite ma, sono antri di dolore, dove ogni relazione è conflittuale, quasi primordiale.

Un tipo di famiglia che nell’Italia più interna, nell’Italia contadina, era quasi la regola, almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso, come ci hanno ricordato, tra gli altri, L’Accabadora di Michela Murgia o Mille anni che sono qui di Mariolina Venezia. Un’Italia arcaica e patriarcale - presente anche nelle grandi città del sud, come ci ricorda Elena Ferrante ne L’amica geniale – dove ignoranza e povertà si traducevano in rapporti conflittuali e violenti, in sopraffazione dei penultimi verso gli ultimi. Dove, spesso, le famiglie povere con tanti figli, per dar loro un futuro, ne cedevano alcuni a parenti benestanti e senza figli.

Gli abruzzesi qui narrati non sono i forti e gentili dell’adagio popolare ma degli esseri semiprimitivi - come lo erano gli abitanti dell’Italia più interna fino a qualche decennio fa - ma ricordano gli abruzzesi di Ignazio Silone. Ma possono anche essere i sardi di Grazia Deledda, di Salvatore Niffoi, di Gavino Ledda.

Un tipo di paese verso cui rischiamo di tornare se si dovesse continuare a non investire in istruzione e cultura, ad acuire le diseguaglianze. E ne abbiamo tutti i sintomi: violenza su donne e bambini, femminicidi, razzismo, ascensore sociale bloccato.

Con Borgo Sud riprendono le vicende de L’Arminuta (da arvinùte che, nel dialetto dell’hinterland chietino-pescarese, significa "è ritornata"), a narrarle è sempre in prima persona la protagonista, di cui non viene mai fatto il nome. La bambina che a dodici anni, di colpo, si era trovata catapultata con una valigia e una sacca di scarpe in una famiglia che le era totalmente estranea, ma che scopre essere in realtà la sua vera famiglia biologica.

Lei cittadina, abituata ad ogni agiatezza a far danza e nuoto, circondata di attenzioni, figlia unica, si ritrova a vivere in un paesino dove è trattata da straniera, in una casa piccola e sporca, piena di fratelli che non sente suoi consanguinei, e vuota di cibo (il poco che c’è è conteso), con una madre e un padre anaffettivi e violenti. L’unico legame che riesce ad instaurare è quello con la sorella minore Adriana che, uno scricciolo che, con il suo carattere scontroso e ribelle, riesce a proteggerla anche dalle molestie del fratello Vincenzo e dalla violenza degli altri familiari: «Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Nella complicità ci siamo salvate».

«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza[…] Ripetevo la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo […] Invidiavo le compagne di scuola del paese e persino Adriana, per la certezza delle loro madri».

Mentre nei fratelli povertà, ignoranza e assenza di qualsiasi stimolo educativo e l’esser cresciuti in una famiglia disfunzionale produrranno altra esclusione - uno vive solo in campagna, un altro è emigrato in Libia, Vincenzo il molestatore è morto in un incidente e l’ultimo è ricoverato in un istituto per persone con deficit cognitivi - la nostra protagonista, forte dell’educazione ricevuta e del contesto in cui è vissuta fino ai tredici anni, riesce a trovare una via di fuga e di riscatto nella scuola. In questo secondo romanzo la ritroviamo ormai laureata, dapprima dottoranda nella facoltà di lettere dell’Università di Pescara e, successivamente, ordinario, prima a Chieti e poi a Grenoble, in Francia. Ed è qui che riceve la notizia che la sorella Adriana (ma l’autrice ce lo specifica un po’ alla volta) è in coma, a seguito della caduta dal terrazzo della propria abitazione.

Il viaggio di ritorno in Italia è l’occasione per ripercorrere la sua vita fino a quel momento, dall'approdo al liceo, prima uscita dall’incubo familiare e da un borgo ostile. Ripensa al suo rapporto con le persone che ha amato di più: la sorella Adriana e il marito Piero, dal quale si è separata dopo la confessione della sua omosessualità.

Ripensa all’irrequietezza adolescenziale della sorella che l’ha portata ad innamorarsi di un uomo violento e geloso, che fallisce in ogni sua impresa, che non ha saputo garantire nulla ad Adriana ma, poi, riflette sul fatto che anche il suo matrimonio, che sembrava offrire un approdo sicuro, è fallito. Piero, il marito, tanto attento e premuroso (ma anche geloso dei successi della moglie), un dentista figlio unico di una ricca coppia, scopre ciò che inconsciamente, per paura del giudizio della società e, soprattutto, dei suoi genitori, ha sempre negato a se stesso: ama gli uomini. Quando si innamora veramente la lascia, pur restandole sempre amico e lei commenta: «dentro la sua separatezza non l’ho mai del tutto raggiunto nella sua verità».

Di Pietrantonio in questo romanzo non abbandona il tema predominante del rapporto madre-figlia attorno a cui si svolgevano i precedenti romanzi; qui la protagonista assiste la madre morente che fino alla fine resta anaffettiva; viceversa, Adriana, la sorella, trova la via del riscatto proprio nel rapporto molto protettivo verso suo figlio.

Ma Borgo sud è più un romanzo sulla sorellanza, sulla solidarietà tra sorelle anche quando si è diametralmente opposte: «Adriana si credeva un angelo con la spada, ma è un angelo sbadato e feriva anche per sbaglio […] con mia sorella ho spartito un’eredità di parole non dette, gesti omessi, cure negate […] siamo state figlie di nessuna madre. Siamo ancora, come sempre, due scappate di casa […] Per ognuna di noi restava la certezza dell’altra» ed è un romanzo sull’amore, su quanto le donne sono disposte a soffrire e a subire per salvare un amore.

Se L’Arminuta poneva città e paesi come due mondi diversi e divisi, qui si traspone questo iato nella distanza tra centro e periferia della città. Il centro, dove vivono come sepolcri imbiancati famiglie ricche e agiate (come quella della protagonista), mentre a Borgo sud, quartiere di pescatori, ci possono essere sì scoppi d’ira, ricatti e violenze ma pure una forte solidarietà - come quando tutti aiutano Rafael, il marito di Adriana sempre pieno di debiti, a riscattare la propria barca - che può sfociare in omertà (tutti hanno sentito Adriana discutere prima di cadere ma nessuno ha visto niente). Di nuovo proteggono Rafael.

E Adriana? Ancora una volta, anche se ormai non ci vive più insieme da tempo, forse lo coprirà per amore di suo figlio.

In conclusione, ancora un romanzo duro, spigoloso ma anche – in tempi di egoismi – un invito a rinunciare a ciò a cui si tiene di più per soccorrere chi si ama.

adriana.spera@ilfoglietto,it

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