L’art.572 del codice penale parla chiaro: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
[La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici.].
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
Ne sa qualcosa un docente che, in classe, ripetutamente durante le lezioni apostrofava un proprio alunno con improperi quali “deficiente” o “fetente” o addirittura “coglione”, così umiliandolo dolorosamente di fronte agli altri studenti, il tutto nella patente differenza di ruolo e di età tra lo stesso docente e l’allievo, appena dodicenne.
Nei di lui confronti, infatti, la Corte di Cassazione, con sentenza n.3459/2021, pubblicata il 27 gennaio scorso, ha ritenuto corretta la qualificazione del reato di “maltrattamenti” (art. 572 c.p.) e non del più leggero reato di “abuso di mezzi di correzione” (art. 571 c.p.).