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Martedì, 19 Mar 2024

La notte più buia di Roberto Gramiccia - edito da Mimesis – luglio 2022, pp. 290, brossura, euro 20,90.

Per chi è nato tra i primi anni '50 e la metà dei '60, la lettura di questo romanzo significa rievocare la propria infanzia e la giovinezza - non a caso l'autore ci confessa che con esso ha voluto “raccontare, in modo indisciplinato, la storia della mia generazione” - l'Italia di quegli anni, un paese che si stava risollevando dalla guerra, pieno di speranze con l'idea di un futuro migliore.

Quell'idea di futuro che i nostri ragazzi non hanno, né possono averla, per quello che l'Italia è diventata: l'ombra di quel paese dove, se eri bravo, potevi aspirare ad una situazione di benessere economico, seppure, senza tanti sfarzi. Un paese ben diverso da quello odierno, diviso fra potentati, dove si parla tanto di meritocrazia, ma poi la torta viene divisa sempre fra i soliti noti. Un paese spolpato al punto da uscire in ginocchio da una pandemia e non sappiamo quel che succederà ora che, di fatto, è in guerra.

Roberto Gramiccia ci vuol rammentare la fragilità degli umani ma pure la loro capacità di resistere e reagire.

A partire dalle belle pagine che rievocano episodi della sua infanzia, da quello che dà il titolo all’opera La notte più buia. Quando il nostro autore – affidato, nottetempo, dai genitori che dovevano recarsi in ospedale per portare l’altra figlia ad una vicina di casa sbadata – svegliatosi nel mezzo della notte si ritrova solo e disperato. Un episodio che segnerà la sua infanzia, che peraltro - seppure costellata da altri incidenti quali l’essere sopravvissuto miracolosamente dopo esser stato travolto da un’auto o dover subire per anni una dieta “ospedaliera” impostagli da un pediatra dopo aver contratto l’epatite A - ebbe un andamento analogo a quello di tanti bimbi di quella generazione.

Nelle pagine che narrano l'infanzia, ritroviamo il vissuto del quartiere popolare romano di Torpignattara e della vicina borgata Villa Certosa, i sacrifici, la povertà ma anche le lotte di operai e sottoproletariato e la crescita economica della piccola e media borghesia negli anni '60. Le diseguaglianze tra chi riusciva a raggiungere un certo benessere e chi restava poverissimo. Struggente il racconto di un bambino che chiede al papà un paio di scarpe nuove e il genitore costretto a dirgli che quelle portava erano ancora nuove, nonostante l'evidenza. Il piccolo Roberto in quell'occasione comprende quanto invece lui sia fortunato.

Ma troviamo anche la narrazione della solidarietà tra le persone (da leggere, il capitolo “Il sindaco”) ancora memori delle sofferenze della guerra. I bambini che giocavano in strada, un po' come i ragazzi della via Paal, data la mancanza di spazi ricreativi comuni, se non quelli offerti dagli oratori e, di contro, le mobilitazioni e l'attivismo del Pci perché venissero realizzati servizi e spazi di aggregazione sociale. La scoperta traumatica della religione sotto forma di imbarazzanti interrogatori durante la confessione. L'iniziazione sessuale dei ragazzi dell'epoca che, nonostante un'imperante cultura cattolica, avveniva quasi sempre con una prostituta.

Tra le pagine più belle, quelle relative alla riflessione sulla politica “i tempi storici non sono mai quelli che vorremmo. A volte sono lunghi e limacciosi altre hanno accelerazioni spaventose. Nel tempo dei nostri venti anni l'accelerazione era massima, la rivoluzione sembrava dietro l'angolo. Ora è massima la stagnazione anche se non mancano elementi che lasciano intravvedere non solo l'opportunità di una trasformazione radicale ma la sua urgenza”.

Poi, con gli anni '70, arriva il fermento dei movimenti, cui Gramiccia aderisce dapprima con entusiasmo ma poi ne uscirà disilluso: “la mia impressione era, essendone parte, che se quella marea montante di rivolta morale antiautoritaria, antipatriarcale e anticapitalistica non avesse trovato il modo di spostare realmente i rapporti di forza, tutta quella energia sarebbe andata dispersa, Non successe proprio così perché il '69 aprì la stagione delle grandi riforme degli anni settanta, da un lato, e dall'altro dischiuse lo scenario degli anni di piombo”.

Il nostro giovane protagonista, partito dalla convinzione che per migliorare le cose occorresse una “democrazia consiliare”, ossia diretta, presto, osservando le dinamiche del movimento arriva “a maturare un atteggiamento di scetticismo nei confronti dei rituali di una militanza che mi appariva poco stimolante nei confronti delle capacità critiche degli aderenti al gruppo”- l'allontanamento dal collettivo di Medicina de Il Manifesto e l'adesione alla sezione di quartiere del Pci dove “sperimentai il centralismo in miniatura ...misurai anche i limiti di quell'esperienza ..soprattutto quello di rimanere invischiato in una rete burocratica che prescindeva dalla linea decisa dal Partito, applicando il centralismo democratico”.

Dal ricordo di quelle distorsioni nasce l'amara considerazione sul destino di quel partito: “Di errori di linea ne sono stati commessi. Ma forse non è a causa di questi errori che il partito si è spiaggiato prima e poi è morto. Molto più patogeno di questi errori – che Berlinguer tentò invano di correggere – fu la morsa della burocrazia e dell’apparato che alla fine fece mancare l’aria”. Un ambiente in cui solo funzionari yes man facevano carriera e che poi hanno portato alla disfatta del Pci, che hanno tradito il sacrificio di tanti, come Ciro Principessa, assassinato il 19 aprile 1979 da un giovane fascista.

Per Gramiccia, la politica prima, la medicina poi, era un modo per occuparsi di fragilità (un tema che ha affrontato più volte nella sua variegata produzione letteraria). La medicina, come la politica - riflette - hanno come obiettivo un progetto rivoluzionario. E la medicina è sì scienza, ma ancor più è un'arte. È a partire da queste considerazioni che il nostro autore arriva allo studio da ”irregolare”, da autodidatta illuminato, alla scoperta dell'arte.

Ma sono le ingerenze e il cattivo influsso della politica che negli anni '90, specie in Regioni come il Lazio, stanno portando all'affossamento della sanità pubblica a riportare il nostro all'impegno politico che lo condurrà ad aderire a Rifondazione comunista, all'epoca l'unica forza politica non invischiata in quegli sporchi giochi.

Di quell'esperienza, il bilancio è quello di “una storia generosa e problematica che, in qualche modo, ha riassunto e condensato i destini di una sinistra radicale che, nonostante gli sforzi profusi non ha saputo cogliere l’occasione di occupare lo spazio politico lasciato libero da una sinistra moderata che ormai non era nemmeno socialdemocratica ma liberale o peggio liberista”.

Ma le pagine forse più belle sono quelle in cui Gramiccia traccia un bilancio sullo stato di salute della sanità e su come è cambiata la medicina, nel capitolo Il fascino dell’anamnesi, che l’autore paragona alla fase ideativa di un’opera d’arte, “la medicina è consustanziale all’arte e quindi familiarizza con l’intuizione che, a sua volta, è molla fondamentale anche della scienza”.

Partendo dal fatto che all'anamnesi non si dà più l’importanza di una volta “derubricata a banale compilazione di moduli” quando non omessa e che l’esame obiettivo è ridotto al minimo o sostituito da costosi esami strumentali che non solo “surrogano un rito un tempo ritenuto quasi sacro, maieutico” ma che hanno pure fatto lievitare i costi del servizio sanitario nazionale, al punto da metterne in pericolo la sostenibilità e conseguentemente da far strada all’idea di una necessaria privatizzazione. Ciò, nel concreto, ha portato a tagli draconiani nel SSN. “Quella che si è prodotta è una mutazione patogena piuttosto che un progresso. Una mutazione imposta dall’opportunità di usare la medicina come una delle eccezionali occasioni di arricchimento per multinazionali del farmaco, delle apparecchiature elettro-medicali e della sanità privata, un aspetto particolare di un più generale processo di asservimento di tutti gli aspetti della vita civile, culturale e artistica all’avidità di un sistema economico-finanziario insaziabile, che non ha a cuore gli interessi della comunità ma quelli della propria auto-perpetuazione e del proprio auto-potenziamento”.

Insomma, una medicina che ha perso una visione d'insieme dell'uomo, che per rincorrere un falso mito tecnologico e il profitto ha dimenticato gli strumenti elementari di diagnosi. Così, ad esempio, se solo si fosse provveduto a fare le autopsie sui primi morti per Covid se ne sarebbero capiti meglio i meccanismi e, di conseguenza ,si sarebbero potute salvare più persone.

La pandemia è venuta a disvelarci tutti i limiti di questo sistema e a ricordarci che un servizio sanitario pubblico “non può non essere a fondamento di qualsiasi organizzazione civile evoluta”.

Il nostro autore appare, comunque, ottimista sul futuro, forse perché negli anni della sua carriera ospedaliera è riuscito a realizzare alcuni tra i primi servizi innovativi di prossimità al cittadino, perciò è convinto che la lezione giunta con il Covid condurrà chi ci governa ad un radicale cambio di rotta.

Un ottimismo, però, che non ci sentiamo di condividere: quante risorse del Pnrr sono state destinate alla sanità, qual è il livello di corruzione che ancora permea la nostra sanità?

Ancor più ottimista sui destini della finanza: “Questa catastrofe (il covid, ndr) dimostra una volta per tutte che l'apparato che aveva prodotto la dittatura di una finanza dispotica e mondializzata sta esplodendo per la deflagrazione delle sue interne contraddizioni. Fare affari tirando fuori denaro dal danaro, senza che dietro ci sia nulla che conta davvero” - su tutto, arte compresa - "ha significato minare le basi della possibilità di difendere il bene comune e l'interesse collettivo materiale e spirituale”. Non si direbbe, almeno da noi, considerato come sono andate le cose in Italia, proprio dopo la pandemia e, soprattutto, dopo la conquista del Recovery Fund, quando con una congiura di palazzo si è chiamato a gestire quelle risorse uno dei massimi esponenti della finanza mondiale, affiancato da esponenti politici che in passato avevano portato il paese vicino al default, con gli effetti disastrosi che stiamo pagando e che pagheremo.

Tutte condivisibili le riflessioni sull’esito catastrofico degli anni di piombo, meno quelle sul compromesso storico, sarà che chi scrive non ha vissuto il suo percorso politico all’interno del Pci. Sia come sia, il nostro autore giustamente rammenta che dal combinato disposto dei due eventi derivò la fine del cosiddetto “trentennio glorioso” in cui si affermarono diritti sociali dei lavoratori e diritti civili, come divorzio e aborto, prima impensabili in un paese ultra cattolico.

Illuminante l’analisi sugli ultimi quarant'anni, dagli anni ’80 - la stagione del riflusso - per il nostro iniziati con la strage di Bologna, il 2 giugno 1980. Una strage frutto della strategia della tensione di cui ancora non conosciamo tutti i colpevoli. Una cosa è certa, da quel momento si apre la stagione del disimpegno e, a livello internazionale, del liberismo sfrenato, teorizzato e praticato da Thatcher e Reagan, che Gramiccia definisce “il trionfo dell’idea dell’inutilità dello Stato”.
Anni ’80, i cui effetti deleteri, dannosi per il bene pubblico, si sono prolungati e accentuati nei decenni successivi, fino ai giorni nostri, producendo una sfrenata concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e l’impoverimento progressivo della maggioranza dei cittadini; il blocco dell’ascensore sociale; il depauperamento e lo smantellamento di buona parte dei servizi pubblici. E temiamo non sia finita!

In compenso, proprio lo spirito edonista di quegli anni '80 portò il nostro autore a scoprire il fascino dell’arte contemporanea e fu proprio la sua attività di medico a farlo avvicinare ad una comunità di artisti che, a Roma, in quegli anni, viveva una delle sue stagioni più prolifiche: dalla Nuova scuola romana (cui Gramiccia ha dedicato un libro dal titolo La Nuova Scuola Romana. I sei artisti di via degli Ausoni, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 2005) ad altre realtà o a singoli artisti provenienti dall'arte concettuale, dall'Arte povera o dalla Transavanguardia. Singolari i ritratti di alcuni di essi, come il fotografo Claudio Abate; la grande umanità di Jannis Kounellis (nelle sue opere “la consapevolezza di un'umanità in cerca di riscatto”); Giacinto Cerone, l’unico che riteneva l’artista “un uomo altamente politico”; l’eclettico Mambor. Ma anche l' ”escluso” Ennio Calabria, che negli anni '60 era stato tra coloro che, pur essendo di sinistra, si erano “giocati la carta di una nuova figurazione emancipata dai diktat del realismo socialista” e avevano fondato a Roma la rivista Pro e contro e a Milano il movimento Realismo esistenziale.

È proprio ricordando le vicende del Calabria, che il nostro autore traccia un bilancio dell'involuzione del mondo dell'arte (una riflessione che ha già ampiamente sviluppato nel libro “Se tutto è arte” e non solo in Italia: “La brutalità del sistema dell'arte in questo consiste: nel promuovere o al contrario distruggere autori e movimenti a seconda dei programmi di un manipolo di potentati e speculatori che fanno il bello e il cattivo tempo”. Da qui l' ”Artistizzazione” di qualsiasi opera, da un lato, lo scadimento dell'arte e, dall'altro, spinti dalle case d'asta, la concentrazione di un mercato drogato su una cinquantina di autori di punta, super quotati ma senza merito.

In conclusione, quella di Roberto Gramiccia appare come una vita appagata, piena di interessi e di successi, eppure egli ne traccia un bilancio in chiaro scuro: “Così come mi riconosco più vicino ai vinti che ai vincitori, agli ultimi che ai primi. Sarà la storia mai del tutto risolta della notte più buia? Non lo so. Ma sono convinto che la vitalità, che sono riuscito ad esprimere nel poco che ho fatto sinora, deriva non da un nucleo banale di ottimismo ma da un grumo segreto di angoscia”.

Un bilancio comune a tanti della nostra generazione, abbiamo lottato tanto, eppure, ai nostri figli (“fragili vinti”?) lasciamo un mondo peggiore.

Adriana Spera
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