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Mercoledì, 15 Mag 2024

Vulpem pilum mutare non mores. Secondo lo scrittore romano del I secolo d.C., Svetonio, era la metafora con la quale un pastore definiva l'avidità cronica dell'imperatore Vespasiano.

Un'espressione sempre in auge quando si tratta del potere, anche se oggi usiamo più frequentemente il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed è proprio quel che abbiamo pensato ascoltando le parole dell'ambasciatore americano sul referendum costituzionale che ci accingiamo a votare.

Mai esternazione fu più improvvida, vuoi perché fatta da un ambasciatore che, in quanto tale, dovrebbe svolgere un ruolo ben diverso da quello dell'opinion leader.

Vuoi perché Mr. John Phillips viene da un paese dotato di una delle Carte costituzionali in cui pesi e contrappesi degli organi di governo sono tra i meglio strutturati. Insomma, un sistema che, almeno sulla carta, è realmente democratico. Magari, poi, nella pratica, iniquo.

La Costituzione americana è entrata in vigore nel lontano 1789, l'anno della rivoluzione francese. In 227 anni ha subito solo 27 emendamenti tra i quali il 17mo, del 1913, ha sancito l'elezione diretta dei senatori.

In America, vige quel bicameralismo che con la nostra riforma costituzionale si vorrebbe abrogare, il presidenzialismo è molto mitigato dai poteri del Congresso, come abbiamo potuto purtroppo vedere nei casi della riforma sanitaria, della limitazione delle armi e della revisione delle norme sugli strumenti finanziari. Riforme che il presidente Obama non è riuscito a portare a casa o lo ha potuto fare solo in parte, frenato da una Camera dei rappresentanti e da un Senato composti da pochi eletti che, proprio in quanto tali, rappresentano innanzitutto gli interessi delle lobby economico-finanziarie. Gli eletti in America difficilmente sono persone comuni, quasi sempre provengono da ricche famiglie e le cariche vengono tramandate di padre in figlio, oggi anche di marito in moglie.

Perché ciò avvenga è presto detto, essendo gli eletti nel Congresso un numero esiguo in relazione ai 320milioni di abitanti del paese, le campagne elettorali sono costosissime e i finanziamenti, per i quali non v'è più un tetto, sono ben accetti e pongono una seria ipoteca al divieto di mandato imperativo.

Ma vi è un altro motivo per il quale l'ambasciatore americano non avrebbe dovuto pronunciarsi sulla bontà della riforma costituzionale targata Renzi-Napolitano ed è che l'influenza americana sugli affari interni italiani non è stata quasi mai positiva. Basti pensare al ruolo avuto dall'intelligence Usa in molte delle più brutte pagine della nostra storia. Una per tutte, la strategia della tensione, inaugurata con la bomba di Piazza Fontana, messa in piedi per fermare l'avanzata della sinistra in Italia. Che ha prodotto se non la stagione del terrorismo?

Un po' quello che è successo in Afghanistan dove per fermare i sovietici hanno finanziato i talebani poi trasformatisi in Al Quaeda, o in Medio Oriente per sconfiggere dittatori come Gheddafi, dove hanno finanziato milizie poi trasformatesi nell'Isis.

Non sembra proprio che la strategia sia il forte della politica estera Usa, fin da quando sottovalutarono, insieme agli inglesi, i rischi connessi alla nascita del fascismo e allo strapotere che andava acquisendo Mussolini.

Gli americani pensino piuttosto ai rischi che corre la loro democrazia nel caso in cui vinca Trump.
Il popolo italiano, si spera, sia abbastanza maturo da difendere la propria democrazia votando No.

All'ambasciatore John Phillips rispondiamo con l'incipit della Costituzione Usa We the people!

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