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Sabato, 04 Mag 2024

Negli ultimi vent’anni l’uso dell’interferone beta ricombinante nel trattamento della sclerosi multipla (SM) ha cambiato la qualità di vita di chi soffre di questa malattia.

Il meccanismo d’azione di questa citochina – solitamente prodotta dall’organismo per organizzare la risposta immunitaria contro le infezioni virali – nel trattamento della SM è, però, poco chiaro, così come rimane poco chiaro il meccanismo alla base della malattia.

In uno studio pubblicato lo scorso 21 agosto su Scientific Reports, i ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele - una delle 18 strutture d’eccellenza del Gruppo ospedaliero San Donato - e dell’Istituto Superiore di Sanità hanno scoperto che in presenza della malattia numerosi geni regolati dagli interferoni prodotti normalmente dall’organismo (endogeni) risultano espressi in modo anomalo nelle cellule dei pazienti, ovvero sono sovraprodotti o sottoprodotti. Non solo, ma alcune anomalie riscontrate sono specifiche delle diverse fasi di malattia e vengono in parte corrette grazie alla somministrazione dell’interferone beta ricombinante.

La ricerca, possibile grazie al sostegno della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), è un progetto multicentrico che coinvolge i gruppi coordinati da Cinthia Farina, presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, e da Eliana Marina Coccia, presso l’Istituto Superiore di Sanità, oltre a descrivere un nuovo meccanismo alla base della malattia e a spiegare il funzionamento di uno dei farmaci di prima linea usati nella SM, getta le basi per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici e di nuovi marcatori predittivi della sua progressione.

I ricercatori del San Raffaele hanno analizzato in parallelo i campioni di sangue periferico di più di 500 pazienti con SM a diversi stati di progressione – prima che iniziassero i trattamenti o sotto trattamento con interferone beta – e i campioni di tessuto provenienti da topi affetti da encefalite autoimmune sperimentale, il modello sperimentale di questa malattia.

Così facendo, hanno potuto misurare, sia nelle cellule umane che in quelle animali, i livelli di espressione dei geni regolati dagli interferoni, raccolti in maniera sistematica nel database Interferome, sviluppato dal collaboratore dello studio, Paul Herzog, della Monash University, in Australia. L’ipotesi avanzata dalla ricerca è nata da una scoperta pubblicata di recente, sempre dal gruppo di Cinthia Farina, capo unità di Immunobiologia delle Malattie Neurologiche, secondo cui singoli geni di suscettibilità alla SM coinvolti nella risposta agli interferoni sono alterati nel sangue periferico dei pazienti, suggerendo la presenza, nella patologia, di un’anomala risposta del sistema immunitario agli interferoni prodotti dall’organismo e, quindi, una atipica reazione antivirale. In effetti, la risposta ai virus risulta alterata in alcune popolazioni cellulari del sangue periferico dei pazienti con SM, come dimostrato dagli studi del gruppo di Eliana Coccia, da diversi anni focalizzati a definire perché una citochina, quale l’interferone beta, prodotta ed usata dal nostro organismo per combattere i virus possa risultare anche utile nella terapia di una malattia autoimmune quale la SM.

”Molti dei geni regolati dalle molecole che chiamiamo interferoni, sia nella malattia umana che in quella sperimentale, vengono in effetti trascritti in modo eccessivo, o al contrario in modo insufficiente”, spiega Cinthia Farina. “Non solo, ma – coerentemente con la nostra ipotesi – l’espressione di circa la metà di questi geni viene modificata con la somministrazione dell’interferone beta ricombinante”.

Inoltre, al di là di un gruppo abbastanza ridotto di geni (21), la cui espressione è alterata in modo indistinto in tutti i pazienti (ovvero indipendentemente dal tipo di SM), lo studio mostra come numerose altre anomalie siano specifiche dei diversi stadi della malattia. Un risultato che apre nuove prospettive di ricerca su più fronti.

”Quanto ottenuto ci suggerisce la possibilità di utilizzare i profili di espressione genica nel sangue sia per la messa a punto di marcatori di progressione della malattia, sia per lo sviluppo di nuovi farmaci in grado di agire in modo complementare all’interferone beta, ovvero di regolare l’espressione dei geni su cui quest’ultimo non interviene”, conclude Cinthia Farina.

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