A distanza di quasi due anni dalla sentenza n. 178 del 24 giugno 2015, depositata il 23 luglio 2015, con la quale la Consulta aveva dichiarato l’incostituzionalità del blocco dei contratti del pubblico impiego, iniziato nel 2010, procede a piccolissimi passi la marcia che, prima o poi, porterà all’apertura del tavolo della trattativa che riguarda oltre 3 milioni di dipendenti pubblici.
Dopo l’accordo con i sindacati confederali, sottoscritto il 30 novembre scorso, alla vigilia del referendum costituzionale, che ha previsto che nella busta paga dei lavoratori pubblici con i nuovi contratti, per il triennio 2016-2018, finiscano mediamente 85 euro mensili lordi, a regime, il governo le scorse settimane ha approvato uno schema di Testo Unico, contenente norme che dovrebbero essere recepite dai contratti, ma che, prima di diventare definitivo, necessita dell’ok da parte del Parlamento, della Conferenza Stato-Regioni e del Consiglio di Stato.
Ma il vero nodo da sciogliere non è rappresentato dagli atti di indirizzo che il governo ancora non ha inviato all’Aran, e che pure sono conditio sine qua non per l’avvio delle trattative, ma dalle risorse, dal momento che quelle già stanziate, qualche giorno fa ripartite con un apposito Dpcm, che ora attende il visto della Corte dei conti, rappresentano poco meno del 50% di quelle necessarie per assicurare la copertura finanziaria dei miseri aumenti medi a regime previsti dal citato accordo.
All’appello, infatti, mancano circa 2 miliardi di euro, che il governo potrà reperire solo con la legge di stabilità per il 2018, il cui varo avverrà a dicembre prossimo.
Pertanto, non appare affatto irragionevole dire che i contratti del pubblico impiego potranno vedere la luce solo nel 2018, quando la Corte dei conti, con l’apposizione dei prescritti visti, avrà accertato l’esistenza delle necessarie e indispensabili coperture finanziarie.