Dopo un letargo durato otto anni, ora il governo attende con trepidazione la firma che Aran e sindacati dovranno apporre in calce alle ipotesi di accordo per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, bloccati – come noto – dal lontano anno 2010 e sbloccati dalla Corte Costituzionale con una sentenza, pubblicata a luglio 2015, rimasta nei cassetti del governo per più di due anni!
Per gli inquilini di Palazzo Chigi, in particolare per la ministra Madia, è del tutto secondario che sul tavolo ci siano pochi euro da distribuire, l’importante è che si arrivi a mettere nero su bianco almeno alla vigilia delle elezioni politiche, che si terranno, quasi certamente, a marzo prossimo, così da poter erogare l’ennesimo bonus, questa volta davvero offensivo per agli oltre tre milioni di dipendenti pubblici.
In pratica, sarà replicato un film già visto il 30 novembre 2016, allorquando, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre (rovinosamente perso da Renzi & co.), governo e sindacati confederali, in fretta e furia, sottoscrissero una sciagurata intesa che, con un incremento medio mensile, a regime, in busta paga di 85 euro lordi (meno di 50 netti), liquidava il rinnovo contrattuale per il triennio 2016-2018!
Adesso, con i contratti di comparto (Sanità, Funzioni Centrali, Funzioni locali, Istruzione e Ricerca) che Aran e sindacati confederali si apprestano a firmare, bisognerà soltanto dare l’ufficialità alla tristemente famosa intesa prereferendaria dello scorso anno, senza peraltro nessuna speranza di intervento a favore dell’esercito di precari, da anni al servizio della Pubblica Amministrazione.