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Martedì, 30 Apr 2024

Poiché siamo in un momento di profonda transizione, della quale sono ancora molto incerti gli esiti, vale la pena dedicare un po’ di tempo all’osservazione di un fenomeno recente, incoraggiato dalla pandemia, che si sta rivelando ottimo vettore per una delle ossessioni del nostro tempo: la diseguaglianza.

Quest’ultima, com’è noto, affligge il nostro dibattito pubblico ormai da un oltre un decennio e dovremmo chiederci perché. Ma poiché non lo facciamo – o almeno non tutti lo fanno – possiamo continuare a popolare questo filone letterario tentando almeno un sguardo che esuli una volta tanto dal semplice livello dei redditi.

Lo spunto ce lo forniscono un paio di osservazioni molto interessanti. La prima è stata prodotta dalla Bis di Basilea nell’ambito della sua ricognizione statistica sugli andamenti dei prezzi immobiliari e fa seguito a una lunga serie di conclusioni alle quali sono arrivate diverse banche centrali e alcuni osservatori di settore: i prezzi salgono insieme alle compravendite, ma più nelle aree esterne alle grandi città che nei grandi centri. Come se fosse in corso una sorta di esodo, incoraggiato dalla pandemia e dallo smart working.

A tal proposito, la Bis scrive che “evidenze aneddotiche suggeriscono che la domanda di abitazioni possa essersi spostata verso le aree sub-urbane e rurali, via dalle grandi città, durante la pandemia, riflettendo l’impatto di alcuni fattori. I dati preliminari suggeriscono che questo spostamento inizia a riflettersi in termini di differenze fra gli sviluppi dei prezzi in alcuni paesi”. Il grafico sotto da un’idea di questi sviluppi.

La Bis osserva che l’inflazione dei prezzi del mattone, che abbiamo già osservato, è stata meno pronunciata nelle grandi città rispetto alle aree esterne. Sui 21 paesi osservati, tale tendenza si è osservata in 11 capitali/grandi città, mentre in altre cinque si è osservata la tendenza opposta. Si tratta quindi di un’evidenza molto sfumata. Ma definita abbastanza da meritare un approfondimento.

E’ interessante osservare che queste tendenze di breve periodo sono molto diverse da quella di lungo, che si possono osservare dal grafico sotto.

In Olanda, ad esempio, dal 2019 i prezzi sono saliti più nelle aree esterne che nelle grandi città, al contrario di quanto accaduto se guardiamo il decennio iniziato nel 2010. A conferma del fatto che un ciclo è iniziato, ma non è affatto detto che duri. Come abbiamo già osservato, le forze che sostengono la congestione nella grandi città, che è uno dei vettori che favoriscono la rendita, fra le quali spicca quella immobiliare, sono all’opera e non si daranno facilmente per vinte. Basta pensare al dibattito in corso nel nostro paese sullo smart working. Chi difende il lavoro in ufficio con l’argomento che favorisce baristi e ristoratori delle zone direzionali, di fatto favorisce anche la rendita del settore immobiliare, mettendo insieme due interessi molti diversi fra loro: quello di un barista e quello di un fondo immobiliare. Ciò per dire che le analisi economiche per classi sociali o di reddito sono vagamente fuori fuoco.

La seconda osservazione interessante arriva da uno studio recente del Nber che analizza gli effetti del lavoro da remoto nelle città americane che ci riporta al discorso centrale: la questione della diseguaglianza. Gli autori hanno osservato che le città a maggiore densità abitativa sono le stesse che esibiscono una maggiore specializzazione in lavori ad alta specializzazione (high-skill), che poi sono gli stessi che hanno più probabilità di essere svolti da remoto.

E, in effetti, la tendenza osservata nel corso della pandemia conferma questa potenzialità. “Molti addetti ai servizi altamente qualificati hanno iniziato a lavorare da remoto – scrivono -, sottraendo la loro spesa dalle industrie dei servizi al consumo delle grandi città che dipendevano dalla loro domanda”. Un esito da non sottovalutare. Questi servizi, infatti, – classicamente la colazione al bar la mattina, o il parrucchiere – venivano in larga parte prodotti dai lavoratori low-skill impiegati nelle grandi città, che di conseguenza “hanno dovuto farsi carico del recente impatto economico prodotto dalla pandemia”.

Per dirla diversamente, il banconista di un bar del centro, che non può certo lavorare da remoto, si è trovato non solo a dover fare i conti col lockdown, che l’ha privato del reddito, ma ha dovuto fare fronte anche alle spese per continuare a vivere nella grande città, di certo ben superiori a quelle di un piccolo centro. Per questo gli autori dello studio parlano di “ampie implicazioni per le conseguenze distributive nella transizione dell’economia verso il lavoro da remoto”. Il rischio è che si amplino ancora di più le differenze fra i ceti. Da una parte i lavoratori qualificati, che possono scegliere di vivere lontano dalla congestione, godendo persino di un miglioramento della loro situazione reddituale – e basta considerare il risparmio che deriva dall’azzeramento degli spostamenti – dall’altra i meno qualificati, alle prese con redditi declinanti, nel contesto molto costoso della grande città.

Questo scenario è stato elaborato per gli Usa, ma basta scorrere le nostre cronache recenti per notare la somiglianza con le dinamiche di casa nostra. I servizi low-skilled nelle grandi città italiane hanno subito un duro colpo a causa della pandemia che ha contribuito ad allargare la forbice della diseguaglianza dei redditi.

La “dipendenza” individuata dai ricercatori americani dei lavoratori poco qualificati dai redditi di quelli molto qualificati non è certamente solo un fenomeno Usa. La grande città prospera in questa interdipendenza. Solo che la tecnologia ha creato un alternativa. Adesso gli high-skill possono lavorare da remoto, e vivere benissimo, al contrario dei low-skill. E in questo scenario se il governo vuole agire in chiave redistributiva può scegliere fra usare la leva fiscale a vantaggio dei lavoratori poco qualificati – i classici bonus – o semplicemente riportare nei loro uffici gli high-skill. Che poi è quello di cui stiamo discutendo adesso. Che lo facciano i privati è da vedersi. Ma questa è un’altra storia.

Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
Twitter @maitre_a_panZer
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