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Venerdì, 03 Mag 2024

L’imbecillità è una cosa seria di Maurizio Ferraris, editore Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 129, euro 12.

Recensione di Roberto Tomei

La riflessione sul tema appare quanto mai opportuna, ora che, come ebbe a notare Umberto Eco, “i social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”.

Lasciando stare il web, che dell’imbecillità è solo un moltiplicatore, l’imbecillità è per l’autore una condizione con cui si devono comunque fare i conti. Nel senso che ognuno di noi deve farli, dato che l’imbecillità non è una cosa per altri, né purtroppo per pochi. Da qui in avanti ce n’è per tutti e per tutti i gusti, in quanto l’analisi di Ferraris spazia per ogni dove, toccando gli argomenti più disparati: dall’imbecillità come fattore politico al rapporto tra intelligenza e imbecillità, alla relazione tra questa, il riso e il genio, e a tanto altro ancora.

Circa il primo argomento, sulla scorta di quanto osservato da Kevin Mulligan, l’autore sottolinea, in particolare, l’ascesa dell’imbecillità negli anni Trenta del secolo scorso. Richiama, al riguardo, l’analisi della tonteria nella Ribellione delle masse di Ortega y Gasset, quella della Dummheit in Musil, prima nell’Uomo senza qualità, poi nelle Conferenze sulla stupidità, ma già Il tradimento dei chierici di Julien Benda del 1927 non consiste che nell’abdicazione ai valori dell’intelligenza in nome dei valori dell’azione.

Una escalation culminata negli anni Quaranta, pervasi dal fanatismo, cioè una forma particolarmente acuta di stupidità, che si è accompagnata a un sistematico rifiuto della realtà. Quanto al secondo tema, l’autore ricorda che “la dialettica dell’imbecillismo non si esercita solo attraverso l’azione di militi ignoti: non solo tre controversi titani del Novecento, Wittgenstein, Heidegger e Lacan, ma anche tre meno controversi titani dell’Ottocento, Baudelaire, Flaubert e Dostoevskij, sono tre imbecilli, e non esauriscono certo la lista di un binomio più profondo e radicale di quello tra genio e follia”.

In ordine, infine, agli ultimi due argomenti, l’autore sottolinea il carattere ambiguo della risata, che può essere benissimo segno di imbecillità, ma è anche vero che la mancanza di senso del ridicolo viene considerata, e non a torto, come una circostanza che basta a definire un essere umano come un imbecille. Certo il riso può manifestare cose diverse dal senso del ridicolo, ma esso è comunque la “condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una fenomenologia dello spirito come uscita, sia pure aporetica, dall’imbecillità”. Resta il fatto che questa è l’origine e che la cultura altro non è che il tentativo infinito di cancellarne le tracce, la” grande diga costruita per tamponare quel mare immenso di imbecillità che è il genere umano”.

L’homo sapiens sapiens, che ci vantiamo di incarnare, potrebbe rappresentare così un imbecille intermedio, perché se Vico aveva visto bene che il nostro passato era fatto da bestioni, non aveva visto abbastanza bene che il guado è molto più lungo di quanto non si creda.

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