Condividendo l’unanime orientamento delle corti territoriali (Tribunale e Corte d’appello), già pronunciatesi in materia, con recente sentenza (sez. Lavoro, n.56 del 2015) la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un Comune a risarcire il danno cagionato a un dirigente in conseguenza della revoca dall’incarico.
Non che la revoca non sia ammessa, atteso che l’ordinamento la prevede e la disciplina, anche per gli enti locali, all’art.109 del T.U. n.267 del 2000. Solo che non sussistevano i presupposti per legittimamente adottarla nel caso di specie, in cui, secondo i giudici, il suo utilizzo ha rappresentato nient’altro che lo strumento scelto dalla “politica” per mettere in atto una vera e propria ritorsione nei confronti del dirigente, abilmente contrabbandata come una rotazione, realizzata in concreto mediante un trasferimento dai servizi finanziari a quelli demografici.
Ma andiamo con ordine.
La vicenda ha inizio appunto da questa asserita rotazione che, guarda caso, scatta non già - come sarebbe naturale - alla scadenza biennale dell’incarico, ma dopo l’insorgere di un contrasto con la giunta comunale, a seguito di una serie di pareri contabili negativi espressi dal dirigente.
Non solo. La storia di questo contrasto finisce sui giornali locali, con evidente lesione dell’immagine del dirigente medesimo che, alla fine, getta la spugna e sceglie la strada del pensionamento anticipato. Chiede, comunque, per tutto quanto occorsogli, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali e i giudici, riconoscendo la valenza punitiva del provvedimento adottato nei suoi confronti, gli danno ragione, quantificando complessivamente detto danno in ben centomila euro. Somma che, sia detto di passata, per un comune, tanto più di questi tempi, non è proprio uno scherzo e che i responsabili dovrebbero restituire alle esangui casse dello stato.
Del resto, che con la “rotazione” al dirigente si sarebbe procurato un danno, non avrebbe dovuto essere un segreto per nessuno, dato che è lo stesso regolamento comunale, attraverso la previsione di una scala delle posizioni dirigenziale, a stabilire e attestare tale deminutio nel passaggio dalla dirigenza delle finanze a quella dell’anagrafe.
E proprio tale previsione è valsa ad escludere la tesi del comune dell’insussistenza del demansionamento, sul rilievo che nella pubblica amministrazione la qualifica dirigenziale esprime unicamente l’idoneità professionale con fungibilità delle mansioni.
Anche se al dirigente sono state riconosciute le sue ragioni, egli ha preferito comunque lasciare l’amministrazione e i cittadini hanno perso così un onesto servitore dello stato.
Nient’altro che l’ennesimo, ma sicuramente non l’ultimo, episodio che testimonia come la dialettica tra politici e burocrati non sia stata per niente risolta dalla recezione nel dettato normativo, oltre vent’anni fa, della diade indirizzo/gestione, la quale - come ognun vede - ha finito per consegnare il destino dei secondi nelle mani dei primi.