Con sentenza n. 14527/2018, pubblicata ieri, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di un datore di lavoro che, dopo aver licenziato quattro dipendenti, si era visto censurare il provvedimento dalla Corte d’appello che aveva dato ragione ai lavoratori, con consequenziale reintegra degli stessi nel posto di lavoro.
I giudici della Suprema Corte, nell’accogliere il gravame proposto dall’azienda hanno ribadito che “l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli articoli 21 e 39 della Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione”.