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Venerdì, 26 Apr 2024

Di progetti sbagliati, dannosi per l'ambiente e la salute, attenti solo agli interessi economici di pochi, purtroppo ce ne sono sempre di più. E si sa cambiano radicalmente la qualità della vita, talvolta minacciano persino la sopravvivenza delle popolazioni e perciò suscitano l'opposizione delle comunità colpite, attivano partecipazione popolare, resistenze e conflitti sociali.

Quello che non sempre è noto è quanti e dove siano questi conflitti nel nostro paese e nel mondo, quante e quali siano le realtà in movimento, le comunità che insorgono a difesa dei propri diritti, dei beni comuni, di un modello sostenibile di gestione delle risorse ambientali.

Ora, finalmente, c'è uno strumento per avere un quadro della situazione e per mettere in rete le diverse esperienze: è l'Atlante globale della giustizia ambientale, lavoro partito nel 2007 con lo studio di 150 casi monografici da parte dell'associazione A Sud e del suo Centro di documentazione conflitti ambientali (Cdca) nel 2007 e divenuto poi nel 2013 un lavoro collettivo che, all'interno del progetto di ricerca Ejolt, ha coinvolto oltre 20 partner internazionali tra università e centri studi indipendenti.

Uno strumento in continua evoluzione (oggi analizza circa 1500 casi nel mondo) e ambizioso considerato che, in un mondo sempre più a corto di materie prime, pur di averle non si esita ad attaccare l'ecosistema delle ultime oasi incontaminate del pianeta dove vivono ancora tribù incontattate, compiendo ingiustizie e soprusi cui noi consumatori inconsapevolmente contribuiamo.

Una mappatura difficile anche nel mondo industrializzato dove un'economia e, soprattutto, una politica sempre più governate dalla finanza  determinano continue emergenze, un'ondata di privatizzazioni dei beni comuni, grandi opere devastanti per l'ecosistema, cattive politiche energetiche e molto altro. Di contro, abbiamo mobilitazioni multiformi delle comunità che, spesso assediate, ignorate dai mezzi di informazione, subiscono vere e proprie persecuzioni giudiziarie e violenze.

Sulla scia del primo, quest'anno è nato l'Atlante italiano dei conflitti ambientali “la prima piattaforma web italiana georeferenziata, di consultazione gratuita, costruita assieme a dipartimenti universitari, ricercatori, giornalisti, attivisti e comitati territoriali, che raccoglie le schede descrittive delle più emblematiche vertenze ambientali italiane.

Dal Vajont a Casal Monferrato, da Taranto a Brescia, dalla Terra dei Fuochi alla Val di Susa, dalle zone di sfruttamento petrolifero alle centrali a carbone, dai poli industriali all’agroindustria, dalle megainfrastrutture alle discariche, un atlante delle emergenze ambientali italiane e delle esperienze di cittadinanza attiva in difesa del territorio e del diritto alla salute”, così lo presenta riduttivamente il Cdca. In realtà, sono state poste in gioco anche le competenze di giuristi, economisti, antropologi, tecnici ambientali, epidemiologi, storici, esperti di tematiche ambientali.

Realizzato nell’ambito del progetto Ejolt finanziato dalla Commissione europea che sostiene il lavoro delle organizzazioni di giustizia ambientale e intende  affrontare e analizzare per risolverle le questioni legate alla distribuzione ecologica. Hanno contribuito vari organismi internazionali tra i quali l'Unesco con l'Iscc – Transformations to Sustainability grant.

Capofila del progetto, pensate sia stata qualche università o ente di ricerca italiano visto che il lavoro nasceva in Italia? No, il progetto, coordinato da Leah Temper, ha visto in testa la cattedra di economia ecologica dell'università di Barcellona. Ma non basta, tra le collaborazioni vi sono quelle di docenti di università di diversi paesi. Dalla Colombia al Sud Africa.

Le università Jawaharlal Nehru  e Teri in India, l'università di Versailles, la Lund University in Svezia, la ChulalongKorn University in Thailandia, l'università Federal de Minas Gerais in Brasile, l'Universitat Rovira di Tarragona. In Inghilterra l'University College di Londra e l'università di Oxford e poi ancora l'RMIT University di  Melbourne in Australia, l'University of Novi Sad in Serbia, Harokopio University di Atene, Technische Universität Berlin. Questo per parlare delle sole università, ma poi ci sono centri studi e di ricerca di tutto il mondo, dall'Africa alle Americhe, dal'Europa all'Asia.

Da questo complesso lavoro sono scaturiti report e raccomandazioni alla commissione europea sulle normative ambientali e la gestione delle risorse.

Ma la vera novità del focus italiano è che si tratta di uno strumento di mappatura partecipata, le realtà in lotta possono registrarsi al sito e presentare schede monografiche sulla propria vertenza. Queste, se validate da parte dell'equipe di ricerca del Cdca (composta da ricercatori, giornalisti ed attivisti), entreranno a far parte della mappatura dell'Atlante corredate da una corposa bibliografia utile per gli approfondimenti. Comitati e cittadini possono inoltre contattare, per un servizio di informazione, orientamento e assistenza sulle emergenze ambientali territoriali lo Sportello Informativo per la Giustizia Ambientale e Sociale, aperto dal 2014 presso la sede del CDCA.

L'Atlante può essere molte cose: una risorsa per l'educazione ambientale, un giacimento di informazioni per la stampa, un mezzo per favorire reti di collaborazione fra cittadini. «E' una mappa dell'ingiustizia ambientale − ci dice Marica Di Pierri, presidente del Cdca − ma anche delle diverse realtà alternative in marcia che ormai vanno ben oltre il Nimby, hanno acquisito consapevolezza ambientale. Noi, utopisticamente, speriamo sia un serbatoio di spunti anche per i decisori politici».  Soprattutto è un modo innovativo per  fare informazione dal basso, in un paese dove gli azionisti dei grandi giornali coincidono quasi sempre con le realtà imprenditoriali ed economiche sostenitrici di progetti impattanti.

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