Il comune di Pescara sta tagliando ed asportando i pini morti o danneggiati, a seguito dell’incendio di due anni fa, entro la Riserva naturale di cui dal 2000 esercita la peggiore e nociva gestione che si possa immaginare.
E’ questo un intervento sbagliato, frutto d’ignoranza e di supponenza da parte di chi esercita il potere senza sentire niente e nessuna delle voci di esperti e del mondo ambientalista, con Italia Nostra in prima fila.
Sollevo in merito questioni di paesaggio e di ecologia dell’ambiente. Per quanto riguarda il paesaggio, lo scrittore danese Hans Christian Andersen paragonava a un pino finanche il pennacchio fumante del vulcano di Napoli.
National Geographic definì il pino «l’albero più celebre del pianeta» che non è una semplice pianta, ma un simbolo identitario delle città mediterranee. Più che essere un elemento della natura il pino è un monumento della natura. E in fondo anche a Pescara da un secolo e mezzo è stato una presenza fissa nelle rappresentazioni della città e, per i pescaresi, una presenza familiare, un ingrediente estetico ed affettivo del paesaggio. «Ecco perché - sempre secondo National Geographic - tagliare i pini ammalati non è una semplice questione di tecnica botanica. Ma una questione di ethos e pathos. Abbatterli è abbattere un pezzo d’immaginario. È come se improvvisamente la Città perdesse una parte di sé e della sua anima. In fondo i pini sono il canto delle città mediterranee. E come diceva lo scrittore Romano Battaglia, risvegliano i cuori assopiti degli abitanti, li fanno sognare un sogno che ha lo stesso suono del vento di mare».
Ma è anche una questione ecologica: il terreno su cui si trovano quei pini a Pescara è poverissimo degli elementi nutrienti delle piante, è sabbioso con poco o niente sostanza organica. Come hanno fatto allora quelle piante a crescere e prosperare? Il segreto per cui il bosco esiste da molti secoli, sta sottoterra. Quei pini d'Aleppo sono cresciuti perché hanno beneficiato della simbiosi instaurata dalle loro radici col reticolo sotterraneo delle ife fungine (sottili filamenti dello spessore di circa 5 millesimi di millimetri). Questa rete ha raccolto e indirizzato verso gli alberi quel poco di nutrienti necessari ai vegetali (azoto, fosforo e potassio, all’incirca nelle proporzioni percentuali di 15, 12 e 5) nel sottosuolo, anche a grande distanza.
Ne deriva che oggi, ad esempio, un albero dell’età di 80 anni contiene la quasi totalità dei nutrienti, raccattati dal suolo dall’intero ambiente circostante, nell’area vasta, in tempi lunghissimi. Dal suolo, nonostante sia povero, le sostanze indispensabili per la vita sono state concentrate lentamente, anno dopo anno, nel comparto biologico, quello dei vegetali.
Asportare quei tronchi significa quindi impoverire la pineta, minarne l’idoneità per la vita delle piante, rallentarne o limitare drasticamente le capacità spontanee naturali di rigenerazione del bosco. Quei tronchi andavano invece lasciati sul posto, a degradarsi naturalmente, restituendo fertilità e sostanze vitali al suolo per la rinascita. Cosa vieppiù doverosa per una corretta gestione minimale in una riserva naturale. Al limite, potevano essere lasciati ordinatamente a terra, a delimitare i sentieri, e una parte lasciata come “tronchi morti in piedi”, perché le due specie di picchio potessero scavarci la loro casa oppure come dimora per i pipistrelli, formidabili mangiatori di zanzare.
Ogni tronco morto diventa un ecosistema che si colonizza di coleotteri e insetti vari, di funghi…di tanta vita. Con ogni probabilità quei tronchi asportati finiranno ad essere venduti per alimentare la fame delle centrali a biomasse legnose: quindi, a produrre CO2 che resterà in atmosfera ad aggravare la crisi climatica, per molti decenni. Triste destino per materiale biologico che viene da una riserva naturale le cui finalità sono opposte…e la cui esistenza contrastava la crisi climatica.
L’analfabetismo ecologico trionfa. E la riserva naturale, residuo di un’antica pineta litoranea che dal Molise attraverso l’intero Abruzzo arrivava fino ad Ancona, subisce, dopo l’incendio, pure colpi di grazia inferti dall’amministrazione, che non ha l’idea evidentemente di come si gestisce un’area protetta.
Hanno annunciato che arriverà dalla regione un milione di euro per la Pineta: in mano al comune c'è da tremare per i danni ennesimi e grandissimi che temo siano capaci di fare in una Riserva in cui mai hanno voluto un direttore, un comitato scientifico e neppure una sede.
Giovanni Damiani
Già Direttore di Anpa e Direttore tecnico di Arta Abruzzo
facebook.com/giovanni.damiani.980