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Lunedì, 06 Mag 2024

Questo giornale, com’è noto, ha più volte sottolineato che la disciplina del reclutamento universitario è stata in questi ultimi anni oggetto di troppe rivisitazioni, così come non ha mancato di criticare le scelte del legislatore di moltiplicare i canali di accesso alla docenza, culminate da ultimo nel varo delle cosiddette “cattedre Natta”.

 

Su questa complessa e articolata problematica, di vitale importanza non solo per l’università ma per tutto il paese e, tuttavia, troppo elusa dalla riflessione degli accademici, ci è parso perciò utile segnalare il contributo (pubblicato lo scorso 9 gennaio) offerto (su Costituzionalismo.it, n.2/2016) da Massimo Luciani, ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza.

Con nostra gradita sorpresa, abbiamo constatato l’esistenza di una forte consonanza con le posizioni di questo giornale. Innanzitutto, in tema di proliferazione dei canali di accesso alla docenza, giudicata da Luciani, senza mezzi termini, “un grande pasticcio, nelle cui maglie v’è il rischio che sappia muoversi agilmente soprattutto una certa tipologia di animali accademici, magari più attenti a ragionare sulle prospettive personali aperte dal tal comma o dal tale alinea che sulle esigenze della ricerca o della didattica”.

Una “consonanza” che persiste anche in ordine alle ormai famose “cattedre Natta”, che il docente de La Sapienza, dicendosi convinto che questo obbrobrio, se mai potesse vederci, non farebbe piacere all’onorato, propone di chiamare “cattedre governative”.

A suo parere (che, sia detto per inciso, non è un parere qualsiasi, poiché proviene da uno stimato esperto della materia), con l’istituzione di queste cattedre d’un sol colpo sono stati violati, soltanto con riguardo alla composizione delle commissioni, diversi articoli della Costituzione:” l’art. 97 e il principio della riserva di legge, perché latita (e per plurimi profili!) qualunque garanzia dell’imparzialità ed è palesemente compromesso il buon andamento (per l’assoluta oscurità dei criteri selettivi dei commissari); l’art.33, comma 6, perché il dominio governativo della procedura cancella l’autonomia universitaria; sempre la medesima disposizione costituzionale, perché i commissari possono anche non essere professori universitari; l’art.33, comma 1, perché è annullata la libertà della scienza; l’art.3, perché si equiparano ai professori universitari ‘studiosi’ che non lo sono e perché fra i professori universitari si escludono quelli a tempo definito, che per statuto non possono occupare ‘posizioni di vertice’ nell’università”.

Quanto, poi, al regime di selezione ordinaria dei docenti, Luciani, rilevata “una … coerenza nell’irragionevolezza del sistema, che si dirige tutto, con omogenea compattezza, al raggiungimento dell’obiettivo opposto a quello che dovrebbe perseguirsi”, elenca, tra le cose che non vanno, in particolare, il principio del sorteggio delle commissioni, che non garantisce alcun affidamento sulle capacità dei sorteggiati, che, una volta estratti, potrebbero “prendere il proprio munus come un’irripetibile occasione di esercitare lo jus vitae necisque su intere generazioni di candidati (e magari per chiudere qualche conto con un mondo accademico che – a loro avviso – non li considera abbastanza)”, sottolineando altresì che “la tentazione connessa all’irripetibilità dell’occasione è rafforzata dalla non sorteggiabilità per tre anni dalla conclusione del mandato”.

A tutto ciò, Luciani aggiunge “l’evidente gravità e importanza delle determinazioni assunte dalla commissione”, che “condiziona lo status e l’immagine di intere generazioni di studiosi”, pur riconoscendo che il pregiudizio, in fin dei conti, si riduce in considerazione della possibilità per i bocciati di presentare una nuova domanda dopo soli dodici mesi di intervallo. Ma il punto cruciale sul quale occorrerebbe intervenire è l’accoppiata abilitazione nazionale/concorso locale, atteso che da qui dipendono “la provincializzazione e il progressivo isolamento delle Università”.

Fin qui la pars destruens. Quanto a quella construens, pur nella consapevolezza che non è facile trovare risposte risolutive, Luciani nondimeno azzarda una proposta (peraltro già avanzata in altre occasioni e non solo da lui, come riconosce egli stesso), ossia quella del concorso nazionale non per astratte idoneità ma per concreti posti, eventualmente, ora che i mezzi informatici lo consentono, previo giudizio dell’intera corporazione (o di una parte rappresentativa di questa), in cui i candidati vogliono entrare, fermo restando che,” se questa proposta non convincesse, si dovrebbe stabilire che le commissioni siano composte non solo per sorteggio, ma con un sistema misto, che contempli anche l’elezione”.

In definitiva, la proposta si risolve, dunque, in un ritorno alla selezione per cooptazione, in cui l’unica novità sta nella auspicata valutazione dei candidati da parte dell’intera corporazione o di una parte significativa di questa.

Vista, però, la situazione in cui l’università è precipitata e della quale Luciani mostra di avere profonda consapevolezza, crediamo che conditio sine qua non, affinché il ritorno all’antico possa segnare un progresso, sia che il corpo accademico inizi quanto prima il proprio cammino verso un’autentica renovatio, da operare ab imis fundamentis.

Il punto è se ne sarà capace. Se lo vorrà, lo sarà. Farebbe il suo bene, ma soprattutto quello dell’intero paese, che finalmente smetterebbe di guardarlo, se non con ostilità, quanto meno con dolorosa estraneità.

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