Rileggo in questi giorni “L'errore di Aristotele” (Carocci editore), un saggio di Giulia Sissa che parla dell’origine del patriarcato.
Afferma l’autrice: “Oggi alcune donne sono al potere. Dirigono imprese, governano paesi. Ne hanno conquistato il diritto. Ne sono capaci. Sono bravissime. Ma nulla va dato per scontato.
I Greci hanno saputo immaginare ragazze eroiche, madri autorevoli, regine guerriere. Ma i Greci hanno anche inventato l'autogoverno di cittadini guerrieri, la demokratia. Il popolo è maschio e dev'essere virile.
Ed ecco che le donne potenti diventano impossibili. La filosofia e la legge naturale attribuiscono loro ‘per natura’ incapacità decisionale, inettitudine al comando, sottomissione, vigliaccheria, incostanza, mollezza.
Il maschio è focoso, impetuoso, audace, imperioso. La femmina è fredda, intelligente, vile, timida. L'uomo è un animale politico. La donna è un animale domestico, non possiede il logos.
Aristotele organizza queste idee in un sistema di pensiero. Il cristianesimo ne diffonde i principi e ne rafforza il rigore. La donna antica era irresoluta. La donna cristiana diventa irrazionale.
Alla fine del Settecento, emergono nuovi diritti che appartengono a ogni individuo in quanto essere umano. È il progetto emancipatorio dei Lumi in tutto il suo splendore. È la premessa della qualità democratica moderna. È il nostro orizzonte”.
A commento del saggio io aggiungo che il patriarcato, come struttura di rapporto di potere, quindi sociale tra gli uomini e le donne, è ancora vivo, vegeto e crea danni.
Se il femminismo è l’unica vera rivoluzione riuscita in Italia, perché ha cambiato - almeno in parte - sia gli uomini che le donne, manca ancora un tassello: il mondo rimane degli uomini, al massimo, le donne vengono inserite, accettate e ne subiscono le conseguenze anche nel privato: il patriarcato non è certo terminato.
Sara Sesti
Matematica, ricercatrice in storia della scienza
Collabora con l'Università delle donne di Milano
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