I chatbot – assistenti virtuali progettati per simulare una conversazione umana, tramite testo o voce – sono sempre più presenti nella quotidianità.
Nati per semplificare l’interazione digitale, stanno assumendo un ruolo sempre più complesso: diventare surrogati relazionali, soprattutto per chi vive situazioni di isolamento o fragilità emotiva.
Oggi non si limitano più a rispondere a semplici domande, ma offrono ascolto, attenzione, compagnia e, in alcuni casi, persino conforto.
I cosiddetti chatbot relazionali si propongono come interlocutori empatici, capaci di instaurare un rapporto personalizzato. Ma resta un fatto: non sono esseri umani. Mancano di empatia autentica, emozioni vere e capacità di confronto reale.
Eppure, sempre più persone – soprattutto giovani – dedicano loro ore intere, sviluppando legami affettivi virtuali che, anziché alleviare la solitudine, rischiano di accentuarla.
L’interazione con questi assistenti digitali rappresenta una scorciatoia emotiva: rassicurante, ma priva di profondità. Le loro risposte sono progettate per evitare conflitti, dire ciò che vogliamo sentirci dire, mantenere alto il coinvolgimento. Il risultato? Un’illusione di connessione che svuota invece di nutrire.
Alcuni tra i chatbot più diffusi sono in grado di simulare legami così realistici da far credere di parlare con uno psicologo, con una persona cara scomparsa o con un partner affettivo.
“Replika”, ad esempio, offre conversazioni personalizzate che imitano amicizia, amore o relazioni intime. L’utente può sentirsi compreso e accolto, ma il rischio è quello di sviluppare una dipendenza affettiva da un legame inesistente.
“Character.AI” consente di dialogare con personaggi virtuali, anche ispirati a figure reali o defunte. Questo può generare l’illusione di un contatto emotivo autentico, ostacolando l’elaborazione del lutto o incentivando la fuga dalla realtà.
“Pi” (di Inflection AI) si propone come interlocutore empatico, quasi terapeutico. Le sue risposte fluide e rassicuranti danno l’impressione di un dialogo profondo, ma l’emozione è simulata, non reale.
In una società già segnata da solitudine, individualismo e carenza di legami autentici, i chatbot emotivi rischiano di trasformarsi in palliativi relazionali. Per questo è fondamentale sviluppare consapevolezza: nessuna macchina può sostituire il contatto umano, né colmare davvero i bisogni affettivi più profondi.
L’illusione di essere capiti o amati da un’intelligenza artificiale svuota, isola e indebolisce la capacità di connettersi davvero con gli altri.
Nell’immagine in alto, un fotogramma del film “Her” (2013), commedia di fantascienza su un uomo che si innamora di un sistema operativo intelligente.
Sara Sesti
Matematica, ricercatrice in storia della scienza
Collabora con l'Università delle donne di Milano
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