di Adriana Spera
Con il devastante terremoto che ha colpito il Giappone ed i conseguenti danni ad alcune centrali nucleari s'è riaperto il dibattito sulla scelta nucleare del governo Berlusconi.
Una riflessione necessaria alla vigilia di un referendum di cui i mezzi di informzione parlano poco o nulla e che rischia di non raggiungere il quorum necessario, visto che si terrà a giugno inoltrato, dopo le amministrative, con un esborso di ulteriori 300 mln per il contribuente.
La vita operativa media di una centrale nucleare è di 25-30 anni; l'impianto successivamente andrebbe smantellato, il terreno in cui ha sede bonificato e le scorie stoccate.
Un processo che richiede fino a 160 anni. Per far funzionare una centrale da 1000 MWe servono ogni anno anno 150/200 tonnellate di uranio, estratto da qualche milione di tonnellate di roccia e utilizzando circa 20.000 tonnellate di acido solforico e oltre un milione di tonnellate di acqua e successivamente trasportato con costi e rischi ambientali elevatissimi ed emissioni di gas serra vicine a quelle di una centrale idroelettrica. Il tutto, per produrre potenza termica, che si tradurrà in un 30% di elettricità.
Ogni centrale emette nell'aria sostanze radioattive, tant'è che vari studi registrano nel raggio di 5 km un aumento del 76% dei casi di leucemie nei bambini sotto i 5 anni. Ai rischi connessi alla gestione di un processo tanto complesso si sommano quelli derivanti da eventi sismici.
In Italia, si prevedono centrali atte a resistere a sismi di grado 7,1, come se ci fosse un limite invalicabile per i terremoti nostrani.
Costruire centrali più sicure (si fa per dire) significa far lievitare i già iperbolici costi di realizzazione (10/12 mld l'una) e quelli di gestione e smaltimento delle scorie. Oneri incalcolabili, visto che, ad oggi, non esiste alcun procedimento sicuro.