Una politica senza religione di Giovanni De Luna, editore Einaudi, Milano, 2013, pp.137, euro 10
Recensione di Roberto Tomei
Come tutti ricorderanno, in occasione dei 150 anni dell’unificazione, quasi tutte le istituzioni si sono prodigate, ciascuna a suo modo, per celebrare l’evento. Si trattava, infatti, di un’occasione ghiotta per sottolineare e rinverdire simboli e memorie comuni, il “collante” senza il quale non c’è nazione.
Questa, rileva De Luna, è una costruzione concettuale e lo stato ha continuamente bisogno di strumenti e metodi autocelebrativi per riempirla di significato. Entra qui in gioco il concetto di “religione civile”, da intendere come un principio unificatore (religione, secondo un’etimologia, è un qualcosa che lega) dei singoli, che costruisce uno spazio pubblico di appartenenza, che necessariamente implica sempre un certo rapporto con il passato. Altrimenti detto, religione civile è “l’insieme dei valori e dei principi che fondano lo spazio pubblico della cittadinanza”.
Niente, dunque, che possa far pensare alla sacralizzazione della politica.
Ora, nel corso della nostra storia nazionale, non si può dire che le classi dirigenti che si sono avvicendate al potere - nell’Italia liberale, durante il Ventennio, lungo tutto l’arco della cosiddetta Prima Repubblica - siano riuscite a costruire una, non diciamo forte, ma almeno definita, identità nazionale.
In questi ultimi anni, poi, non solo non sono stati fatti significativi passi avanti in tale direzione, ma sembra che l’unica religione condivisa sia ormai quella dei “consumi”. Ma si tratta, più che altro, di una sensazione/aspirazione: non essendoci stato nessun nuovo miracolo italiano, è impossibile “sentirsi tutti figli dello stesso benessere”.
Secondo De Luna, è ora che la politica si svegli, smettendola di limitarsi all’amministrazione tecnica dell’esistente.
In caso contrario, l’Italia corre il rischio di soccombere.