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Sabato, 27 Apr 2024

Tutti i particolari in cronaca, di Antonio Manzini - Mondadori Libri - 2024, pp. 301, euro 17,50.

Recensione di Adriana Spera

Siamo sicuramente il paese europeo con la giustizia più inefficiente. Per durata dei processi, stando ai dati 2023 della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ), occorrono, in media, da 7 anni e tre mesi a 10 anni nel civile, mentre un processo penale in primo grado richiede, mediamente, 498 giorni, oltre tre volte la media europea, che è di soli 149 giorni. La durata media del processo di appello è di 1.167 giorni, contro una media europea di 121. La Cassazione, infine, impiega, in media, 237 giorni per arrivare a sentenza, mentre in Europa ne bastano 120.

Siamo, invece, in testa per errori giudiziari. Infatti, dal 1991 al 2022, i casi hanno riguardato oltre 30mila persone, il che ha comportato un esborso per lo Stato, tra indennizzi e risarcimenti, circa un miliardo di euro, stando ai dati elaborati dall’associazione errorigiudiziari.com che da oltre 25 anni studia il fenomeno in Italia, grazie al lavoro di due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone.

Comunque, poca cosa se si pensa a vite rubate come quella di Beniamino Zuncheddu che, dall’età di 27 anni, da innocente, ne ha trascorsi in carcere ben 33 della sua esistenza.

Eppure per la giustizia in Italia non si spende poco, atteso che la legge finanziaria per l’anno 2024 stanzia oltre 11,2 miliardi di euro, pari a circa 190 euro a cittadino.

Le condanne sono, che sono diminuite del 20% negli ultimi 15 anni, corrispondono al 40,4% delle sentenze, e ciò anche a causa dell’elevata quota di reati estinti per prescrizione, pari al 24,5%, a fronte del 14,9% del 2008.

È cronaca di ogni giorno che un processo dura tanto più quanto più sono importanti gli imputati, grazie alla difesa di prestigiosi avvocati, processi che, si potrebbe dire, nascono prescritti. Non lo stesso destino di chi, a mala pena, si può permettere un avvocato d’ufficio.

E dire che negli ultimi 10 anni in Italia la giustizia è stata “riformata” più di una volta l’anno, dal “decreto Fare”, del governo Letta che, tra l’altro, modificò alcune regole del processo civile, passando poi per i ben sei provvedimenti di riforma della giustizia civile, penale e amministrativa del governo Renzi, portati a compimento dal governo Gentiloni, per finire alle riforme del ministro Bonafede nei governi Conte: dalla “legge Spazzacorrotti”, che intendeva risolvere la vergogna della prescrizione, ai due disegni di legge delega per la riforma della giustizia penale e civile, successivamente approvati, con profonde modifiche, dal Parlamento durante il governo Draghi, con Marta Cartabia ministra della Giustizia.

Ma il peggio è che l’ultimo che arriva cancella quanto fatto dai suoi predecessori. Regola che puntualmente sta applicando l’attuale governo, la cui filosofia di fondo appare quella di punire pesantemente i più deboli, seppure per piccoli reati come la partecipazione ad un rave party o il fumo di una canna, e graziare i potenti e i corrotti che compiono abusi d’ufficio, per non parlare dei privilegi concessi agli evasori fiscali.

Risultato di questo fermento riformatore è una giustizia sempre più lenta e confusa; la certezza della pena, ai più, appare un miraggio, con la conseguenza che la fiducia nella magistratura è in declino. E vicende che vedono coinvolti magistrati, non aiutano.

La storia narrata da Manzini in Tutti i particolari in cronaca sembra nutrirsi di questo clima.

Protagonista, Carlo Cappai, un passato in polizia, ora archivista nel locale tribunale nonostante una laurea in legge. Un uomo dalla vita metodica, ripetitiva, con i suoi rituali quotidiani, le sue manie, la sua pignoleria, fermo nel tempo a quarant’anni prima. Un’esistenza di rancore, di fallimenti che egli attribuisce, innanzitutto, a suo padre, l’uomo che «egli detestava più di ogni altro al mondo», il potente giudice di Corte d’appello Bruno Cappai.

Carlo, come molti, è convinto che «legge e giustizia correvano su due binari differenti. Che la giustizia interessava solo quando qualcuno veniva privato di qualche diritto, altrimenti restava un concetto e come tale accantonabile. Che nei tribunali il più delle volte si giocava con le procedure e i codici, che spesso si perdeva di vista il motivo per cui quei tribunali esistevano. Suo padre, per esempio, utilizzava il tribunale per gestire un potere e preservarne altri… – una convinzione, la sua, rafforzata dal fatto che suo padre era un massone implicato anche nei processi per le stragi neofasciste, che tante volte sono finiti senza colpevoli – … ecco chi amministrava la giustizia, un coacervo mafioso, clientelare, un pugno di uomini seduti sui cardini del meccanismo che girava solo se e quando volevano loro. Distribuivano sentenze a loro piacimento, da sotto i cappucci, o al ristorante, bevendo la grappa, sceglievano chi doveva pagare e chi riscuotere. Il tribunale come una merce di scambio… quel seme che suo padre e i gregari, meglio ancora i complici, avevano interrato con il loro comportamento malsano e canceroso aveva attecchito, era cresciuto, e altri ora lo portavano avanti, nello sforzo perché nulla cambiasse, così che agli occhi della gente tutto sembrasse cambiato».

Il padre di Carlo si era comportato allo stesso modo anche nel caso dell’uccisione, quarant’anni prima, di Giada, la migliore amica del figlio, ad opera di un ricco picchiatore neofascista. Morte di cui il nostro protagonista si sente responsabile «per non aver saputo rendere alla sua amica del cuore quel minimo di giustizia che ogni essere umano merita. Era responsabile perché sapeva e non aveva lottato abbastanza. Aveva testimoniato al processo, certo, e all'appello, ma a niente era valsa la sua parola. La mannaia del giudice aveva decretato l'innocenza dell'assassino di Giada e lui era tornato a casa, a testa bassa, il cuore dilaniato e sanguinante, impotente e solo contro un sistema che lo aveva schiacciato».

Tanta la sua sfiducia nella giustizia che si mette a studiare i faldoni dei casi più controversi e si trasforma in giustiziere.

Paradosso dei paradossi proprio lui si ritrova ad essere accusato di un delitto che non ha (ma avrebbe voluto) commesso: quello di Luigi Sesti, l’assassino di Giada.

Ma Carlo Cappai sulla sua strada inciampa in un giornalista sportivo che il direttore del giornale, contro la sua volontà, ha riconvertito alla cronaca nera. Un professionista che si mette a indagare su di una serie di omicidi di personaggi incredibilmente assolti dalla giustizia, andandosi a studiare nell’archivio dove lavora il nostro protagonista le carte di quei processi e, pian piano, scopre l’assassino.

Un thriller incalzante che invita a riflettere sul ruolo non sempre compiuto della giustizia in Italia e su quello che, viceversa, potrebbe avere, per raddrizzarne il corso, l’informazione se ben fatta, senza timori reverenziali verso i potenti. Al contempo, un libro che non indulge nella sfiducia, oggi tanto in voga, nel terzo e nel quarto potere.

Adriana Spera
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