Non si può licenziare un dipendente, dalla condotta peraltro irreprensibile, soltanto perché indica alcuni file di lavoro con espressioni volgari (nel caso di specie, ”merda” e ”nuova merda”).
Questo il responso della Corte di Cassazione, che, con sentenza n.5878 del 24 marzo 2015, confermando la pronuncia del giudice di merito (la Corte d’Appello di L’Aquila), ha respinto il ricorso del datore di lavoro, dichiarando illegittimo il provvedimento espulsivo intimato al dipendente.
Si sa che, se potessero scegliere, gli uomini, anziché lavorare, di sicuro farebbero altro. Del resto, nella nostra tradizione, faticare è condanna biblica, risalente nientemeno che ai tempi di Adamo ed Eva. Occorrerà attendere, poi, Darwin per giungere a un capovolgimento di tale concezione, al padre dell’evoluzionismo venendo attribuita (ma senza prova certa) la celebre frase “il lavoro nobilita l’uomo”, sinistramente riecheggiata all’ingresso di alcuni luoghi tragici, dove campeggia l’altrettanto celebre motto secondo cui “il lavoro rende liberi”.
Tutto questo per dire che lavorare non piace poi a tanti, sicché può accadere che qualcuno, come la dipendente di cui alla sentenza in commento, finisca per chiamare certi materiali della sua attività, come i file in questione, con nomi dispregiativi, laddove - si badi bene - non è da escludere che, così facendo, le riesca di ricordare prima e meglio quello che contengono. Col che, è appena il caso di dirlo, le censurate espressioni finiscono addirittura per trasformarsi in un elemento di efficienza per lo svolgimento del lavoro stesso, tornando così a vantaggio dell’azienda.
Ad ogni modo, ribadiscono gli Ermellini di piazza Cavour, non è solo per la sua volgarità espressiva che un lavoratore può essere licenziato in tronco. Se ciò avvenisse, mancherebbe quella “proportio” che ab antiquo è stata uno dei tratti caratterizzanti del diritto e in base alla quale si deve escludere ed evitare qualsiasi squilibrio tra l’azione del soggetto e le conseguenze che ad essa si debbono riconnettere.