Il 21 settembre scorso, è stata pubblicata dal Consiglio di Stato la sentenza n. 4394, che contiene una sorta di vademecum per chi intende, ritenendo di essere vittima di comportamenti mobbizzanti da parte del datore di lavoro, adire le vie legali.
Per i giudici di Palazzo Spada, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, rappresentati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. Conseguentemente, precisa il Consesso, un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante.
Sotto il profilo processuale, inoltre, la condotta che dà luogo a mobbing deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di esser vittima di un illecito, ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice – eventualmente, anche attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi – possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.
La ricorrenza del mobbing, infine, deve essere esclusa tutte le volte che la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste in essere.
In particolare, allo scopo di poter configurare una condotta persecutoria, i vari episodi addotti debbano essere, nella loro oggettiva portata, tali da dimostrarne la sussistenza, non essendo sufficiente fare riferimento alla percezione che l’interessato abbia avuto degli stessi.
In pratica, atti o comportamenti obbiettivamente neutri o comunque, inidonei a configurare una condotta mobbizzante, non assumono tale ruolo solo perché colui nei confronti del quale sono diretti, li abbia avvertiti come vessatori.