Con sentenza n.40320 del 2015, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che il reato di cui all’art. 572 del codice penale si configura non soltanto nell’ambito dei rapporti con familiari e conviventi ma anche tra professionisti, non potendo il giudice aprioristicamente escludere la natura parafamiliare del rapporto nell’ambito lavorativo tra professionisti di elevata qualificazione.
A determinare il responso degli Ermellini, che lo hanno accolto, è stato il ricorso di un medico che aveva impugnato la sentenza del Gup di non luogo a procedere nei confronti del suo superiore, direttore dell’unità di Cardiochirurgia dell’ospedale, che lo aveva demansionato, isolandolo e umiliandone la professionalità.
In concreto, il professionista non era stato più chiamato ad effettuare consulenze presso la struttura ospedaliera ed anche i suoi interventi si erano progressivamente diradati, fino al punto che gli erano stati preferiti altri colleghi, con minore anzianità di servizio, per disimpegnare le funzioni di primo chirurgo reperibile.
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha riconosciuto che, essendo il predetto rapporto interpersonale tra il ricorrente e il superiore caratterizzato dal tratto della parafamiliarità, la condotta persecutoria e maltrattante del datore di lavoro in danno del dipendente ben può essere sussunta nella fattispecie incriminatrice delineata dal citato art. 572 cod. pen.
In particolare, la Corte di Cassazione ha precisato che detto requisito della parafamiliarità, ritenuto sussistente nel caso di specie, “si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un altro in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità e informalità”.