Con sentenza n. 938072017, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – torna ad occuparsi di mobbing.
I giudici della Suprema Corte ribadiscono, ancora una volta, che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono necessari: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
In pratica, per poter invocare il mobbing, occorre che il comportamento del datore di lavoro, sistematico e protrattosi nel tempo, consista in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo, occorrendo la prova quindi anche di una esplicita volontà di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio.
Inutile aggiungere che l'onere della prova è a carico del lavoratore "perseguitato".