Un bel paper pubblicato dal NBER (National Bureau of Economic Research) ci aggiorna su una delle tante novità fiorite nel mondo della finanza internazionale dopo la Grande Crisi del 2008, esplosa proprio grazie ai prodotti esotici della finanza internazionale. Strano ma vero: si rimedia ai guasti dell’innovazione finanziaria innovando la finanza. E questo genera nuovi rischi.
La trovata in questo caso è stata spostare il debito rischioso fuori dalle banche, creando un rapporto morganatico di queste ultime con altri soggetti, chiamati genericamente non banche (Non bank financial institutions, NBFIs), delle quali ci siamo già occupati qualche tempo fa.
Questa tendenza generale si è manifestata in modi molto diversi fra loro. Quello di cui ci occupiamo oggi è il private debt. Si tratta di prestiti concessi dalle non banche - in questo caso fondi di credito privato e Business Development Companies (BDCs) - e detenuti fuori dai circuiti tradizionali. Questi strumenti sono spesso impiegati in operazioni ad alto rischio, come i leveraged buyout (LBO), dove un fondo di private equity acquisisce un’azienda combinando capitale proprio e debito. 
Il private debt, quindi, non deve essere confuso col private equity. Nel primo, l’investitore agisce come creditore, riceve interessi fissi e ha priorità di rimborso. Non ha controllo sull’azienda, ma beneficia di flussi di cassa stabili. Nel secondo, l’investitore diventa proprietario o co-proprietario dell’azienda, punta alla crescita del valore dell’impresa e al ritorno economico. Il rischio è maggiore e quindi anche il potenziale rendimento. In pratica, il private debt è più difensivo e orientato alla protezione del capitale, mentre il private equity è più aggressivo e orientato alla valorizzazione.
Il paper ci racconta che negli ultimi quindici anni il private debt, un tempo strategia di nicchia, è diventato uno dei pilastri dell’ecosistema finanziario globale. Dopo la Grande Crisi Finanziaria (GFC), il settore bancario ha subito una stretta regolamentare che ha ridotto la sua esposizione al credito ad alto rischio, soprattutto verso le imprese medio-piccole. Questo vuoto è stato colmato dai fondi privati, che hanno attratto capitali da investitori istituzionali alla ricerca di rendimenti più elevati in un contesto di tassi bassi. In sostanza, il ruolo di intermediazione delle banche in questo segmento è stato completamente occupato dalle non banche.

Il risultato è stato che nel 2025, il mercato globale del debito privato ha raggiunto 1,7 trilioni di dollari in capitale impegnato, triplicando rispetto al decennio precedente. Circa un terzo di questo capitale non è ancora stato investito, segno di una forte capacità residua.
Il paper distingue fra due strumenti di private debt: i BDCs: società regolamentate dalla SEC, che raccolgono capitale da investitori retail tramite azioni e obbligazioni. Operano con leve moderate e sono più trasparenti. E i Credit Funds, fondi chiusi, simili a quelli di private equity, finanziati da investitori istituzionali con capitale bloccato per 10 anni. Sono meno regolamentati ma più stabili nei periodi di crisi.
I BDCs sono più vulnerabili alle fluttuazioni di mercato, mentre i Credit Funds godono di maggiore resilienza. Tuttavia, entrambi dipendono in parte da linee di credito bancarie, creando potenziali canali di contagio.
Circa il 60-85% del private debt sostiene operazioni di buyout. Questo legame è evidente anche nella distribuzione settoriale: il 46% dei fondi di credito è concentrato nel settore tecnologico, in particolare cloud computing, intelligenza artificiale e applicazioni mobili.
Storicamente, le banche non hanno avuto un ruolo significativo nel finanziamento di buyout, soprattutto nel segmento mid-cap. Il private debt ha colmato questo vuoto, offrendo soluzioni flessibili e rapide, spesso con un singolo prestito senior garantito. Ma non è tutto oro quello che brilla. Il paper evidenzia diversi rischi sistemici, che vanno dal contagio bancario, visto che i BDCs dipendono in parte da linee di credito bancarie, creando interconnessioni potenzialmente pericolose, fino a rischio di liquidità, visto che i BDCs possono trovarsi in difficoltà nei momenti di crisi di mercato. Inoltre, la mancanza di trasparenza nei Credit Funds rende difficile monitorare il rischio aggregato, nonostante la loro stabilità apparente.
In sostanza, il private debt ha trasformato il modo in cui le imprese si finanziano, offrendo flessibilità e accesso al credito per i soggetti fuori dal perimetro delle banche tradizionali. Quelli che una volta si chiamavano subprime. Ma questa evoluzione comporta anche nuove vulnerabilità. Proprio perché i subprime non sono scomparsi. Hanno semplicemente trovato altri creditori che le banche finanziano al loro posto. E così la giostra continua.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”

