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Lunedì, 11 Dic 2023

Il dibattito sullo smart working, in disparte certe posizioni vagamente surreali – si pensi a chi chiede che ai lavoratori casalinghi sia ripagata anche la luce – merita sicuramente un approfondimento visto che, al di là delle circostanze pandemiche, ha elementi di sicuro interesse in un mondo afflitto da timori di riscaldamento globale e ricco abbastanza da questionare alcuni punti fissi dell’attuale organizzazione sociale. Fra i quali quello che la prestazione lavorativa si debba svolgere nel luogo deciso dal datore di lavoro.

Sorvoliamo sui tanti lati positivi che porta con sé il lavorare da casa – uno per tutti: risparmio di tempo e denaro per gli spostamenti – e anche su quelli negativi – ad esempio un perenne distanziamento sociale che può rivelarsi pernicioso così come lo sfumarsi del confine fra vita professionale e vita privata – limitiamoci a una semplice domanda: quante persone possono realmente fare smart working allo stato attuale della nostra tecnologia e del nostro mercato del lavoro?

Una prima risposta possiamo trovarla in una breve pubblicazione proposta dal NBER che quantifica empiricamente la percentuale di lavori che si possono “remotizzare” presso la propria abitazione. Lo studio è focalizzato sugli Usa, ma può essere utile anche per il lettore italiano: parliamo comunque di un’economia avanzata per certi versi molto simile alla nostra, almeno quanto a organizzazione e dotazione tecnologica.

I risultati, ovviamente, sono frutto di stime, che a loro volta si fondano su osservazioni campionarie basate su interviste e con varie premesse di metodo. Quindi vanno considerati come indicatori di tendenze più che come dati. Ma in ogni caso se ne traggono alcune informazioni utili a farsi un’idea appena più concreta della percezione assai diffusa che lavorare a casa sia la panacea di tutti i mali dell’economia moderna.

Un esempio servirà a chiarire. In aggregato, spiegano gli economisti, la classificazione dei lavori utilizzata dallo studio arriva alla conclusione che il 34 per cento dei lavori statunitensi può “plausibilmente essere svolto a casa”. In quel plausibile si annidano molti distinguo. Ad esempio, quello secondo il quale, per convenzione, gli economisti ipotizzano nello studio che l’82 per cento degli 8,8 milioni di insegnanti americani siano capaci di lavorare da casa. Suona plausibile “dato il grande numero di scuole che correntemente utilizzano l’apprendimento da remoto”. Se questa premessa venisse meno, la percentuale aggregata si dovrebbe ridurre di un notevole 5 per cento.

Questo serve anche ad avere un’idea del peso specifico dell’istruzione non solo nel mercato del lavoro, ma anche sul totale degli spostamenti. Smart working per i docenti, infatti, implica altresì che i discenti studino a casa. E questo porta con sé che anche molti genitori debbano diventare lavoratori casalinghi, perché non tutti possono lasciare i figli da soli. Detto altrimenti, lavorare a casa porta con sé, in molti casi, che anche la fruizione dei servizi sia “remotizzata”.

Se torniamo al nostro studio, scopriamo anche altre cose. L’American Time Use Survey del 2018, citata nella ricerca, mostra che meno di un quarto dei lavoratori a tempo pieno lavora a casa in un giorno medio e anche questi pochi trascorrono tipicamente in casa meno della metà del loro tempo lavorativo.

Ciò può significare varie cose. Ad esempio, che la tipologia dei lavori svolti richiede comunque di trascorrere del tempo fuori casa, il che toglierebbe argomenti a chi giudica lo smart working un modo per allentare le pressioni sul traffico. Oppure che lo smart working sia un modo che giova meglio al lavoratore per unire l’utile (il lavoro da casa) al dilettevole (migliore gestione del tempo per gli affari privati). O, ancora, che lo smart working migliori la produttività del lavoro, e quindi serva meno tempo (in casa) per fare le stesse cose che si fanno al lavoro.

Un’altra informazione utile: i candidati allo smart working – il nostro 34 per cento del totale – “tipicamente guadagna di più”. Esprime infatti il 44 per cento del monte salari. Si tratta, quindi, in larga parte, dei rappresentanti di quella che, in un vecchio libro di tanti anni fa, l’economista John Galbraith chiamava “La società opulenta”. E, ovviamente, questo implica che nelle aree più ricche del paese la percentuale degli smart worker sia più elevata. A San Francisco, per fare un esempio, oltre il 40 per cento dei lavori potrebbe essere svolto da casa, mentre a Las Vegas, famosa per i casinò, si scende sotto il 30 per cento.

Anche la tipologia dei settori più spendibili per la remotizzazione conferma l’identikit “affluente” del potenziale lavoratore casalingo: finanza, management, professioni e lavoro scientifico. Al contrario rimangono fortemente legati al luogo di lavoro lavori meno remunerativi come quelli in agricoltura, commercio, ristorazione, eccetera.

Questo ci conduce a un’altra considerazione. La possibilità di lavorare a casa molto facilmente può finire con l’essere considerata come un privilegio, non solo per chi ne fruisce, ma anche per i datori di lavoro, che quindi si aspetteranno dei corrispettivi, almeno in termini di produttività e di impegno. Ma anche i non smart worker, che si vedono “costretti” ad andare al lavoro, vedrebbero come privilegiati i lavoratori casalinghi.

Insomma, lo smart working, si sarebbe detto una volta, è un privilegio di classe, visto che ha a che fare con il livello di istruzione e, quindi, con il livello di reddito che certi lavori garantiscono. Di conseguenza, un’adozione su larga scala di queste pratiche provocherebbe una profonda differenziazione all’interno del mercato del lavoro. E un mercato diviso è certamente più facile da gestire.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

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