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Giovedì, 05 Dic 2024

Il 20 e 21 settembre prossimi, siamo chiamati a votare per il referendum costituzionale sulla riduzione del numero di parlamentari e senatori, rispettivamente da 630 a 400 (guarda caso, lo stesso numero a cui Mussolini ridusse nel 1929 i parlamentari) e da 315 a 200.

Una modifica che è l’ennesimo attacco alla nostra Costituzione repubblicana nata dopo la resistenza al nazifascismo, una Carta in larga parte disapplicata perché riconosce diritti scomodi per i potentati del paese.

Un altro tentativo per aumentare l’autonomia delle Regioni, assegnando ad esse sempre maggiori poteri, cambiando così la forma di Stato da unitario in federale e, al contempo, creando a livello centrale un sistema presidenziale autoritario, che scalza quello parlamentare troppo democratico. Un progetto che somiglia, ancora una volta, al “Piano di Rinascita democratica” della P2 di Licio Gelli.

Si dirà che quasi tutte le forze politiche l’hanno approvata, vero, ma per il timore di essere impopolari in tempi di antipolitica predominante. E, senza l’azione coraggiosa di 71 parlamentari (e forse sarà l’ultima volta che ciò sarà possibile), di appartenenza trasversale, che hanno chiesto il referendum, oggi questa scelta, che si appalesa autoritaria e scellerata, non sarebbe neppure sottoposta al parere dei cittadini.

Tutto passa attraverso la mistificazione - data in pasto agli italiani, sempre più affetti da analfabetismo istituzionale - relativa al costo di un siffatto numero di parlamentari. Sul sito del Movimento 5 Stelle era apparsa, addirittura, la cifra falsa di 500milioni di risparmi annui derivanti dai tagli. Cifra smentita dai minuziosi calcoli dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli che ci dice che il risparmio lordo ammonterebbe ad appena 81,4 milioni di euro, ma che al netto di Irpef, contributi previdenziali e addizionali comunali e regionali versate dagli eletti e delle retribuzioni ai loro collaboratori, il risparmio netto sarebbe intorno ai 57 milioni. Una cifra esigua se raffrontata ai 2.600 miliardi di debito italiano e pari allo 0,007% della spesa pubblica annua.

In pratica, ogni cittadino risparmierà circa 0,90 euro l’anno. Il costo di un caffè, neppure di buona qualità!

Ma quale sarà il costo di questo presunto risparmio? Con il taglio del 36,5% degli eletti (40% al netto degli eletti all’estero e, comunque, questa è la media perché per alcuni territori il taglio sarà del 60%), la nostra rappresentatività democratica - peggiorata sempre più a causa delle varie leggi elettorali succedutesi nel tempo, ma ancora una delle migliori fra i principali paesi europei – crollerà miseramente e non sarà certo una nuova legge elettorale proporzionale a poterla rianimare.

Al Senato, dove si vota su base regionale, un partito per poter avere degli eletti deve superare una soglia tra il 12 e il 20%, a seconda del numero dei senatori da eleggere. Quindi, pur in presenza di un proporzionale puro saremmo, di fatto, in un sistema maggioritario. In particolare, nelle regioni più piccole, solo qualche partito avrà degli eletti. Ma non basta, i collegi uninominali del Senato avranno una dimensione media superiore agli 800mila elettori, alla Camera di oltre 400mila, per cui ad essere eletti saranno più probabilmente candidati provenienti da grandi zone urbane, cosicché, ampie zone del territorio sarebbero prive di rappresentanza. Vi sono regioni come Umbria e Basilicata che perderanno il 60% dei seggi, mentre icredibilmente in Trentino la riduzione sarà solo del 14,3%. Né andrà meglio ai residenti all’estero; ad esempio, i 2milioni di italiani iscritti all’Aire in Europa avranno lo stesso numero di eletti dei pochi italiani residenti in Africa, Asia e Oceania.

Come se tutto ciò non bastasse, soglie di ingresso così alte al Senato rischiano di portare a diverse maggioranze nelle due Camere e, quindi, alla paralisi istituzionale.

Il risultato finale sarà un aumento di quel distacco tra eletti ed elettori, che già tanto fa infuriare questi ultimi, una involuzione della rappresentanza. Nel 1861, con 22milioni di italiani (oggi siamo oltre 60milioni) i deputati erano 443 e nel 1921, alla vigilia del fascismo, con 39milioni di cittadini, i deputati erano 535 e il numero dei senatori, che all’epoca erano nominati dal Re, era anche più alto. D’altronde, come ebbe a dichiarare, in seno all’Assemblea Costituente, durante la discussione sul numero degli eletti, Umberto Terracini: “Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni”. Un film già visto in questi anni per i Consigli comunali e regionali, per non parlare delle Provincie, che sono state cancellate, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Ma vìè di più. Si rischia, infatti, anche di non raggiungere l’obiettivo di questa legislatura: eleggere o rieleggere un Capo dello Stato autenticamente super partes perché il peso dei delegati delle Regioni nell’elezione del Presidente della Repubblica passerà dall’attuale 5,7% al 8,8%. Con una prevalenza di Regioni governate dalla destra, l’obiettivo diventa un miraggio.

Siamo dinanzi ad una riforma frutto dell’ignoranza storica e costituzionale, dominante ormai anche nelle aule parlamentari, tant’è che, ad esempio, probabilmente si ignora che la legge costituzionale n.2 del 9 febbraio 1963 - preso atto della difficoltà a far funzionare i due rami del Parlamento, soprattutto, del Senato a causa del numero insufficiente di eletti - stabilì che la Camera sarebbe stata composta da 630 membri e il Senato da 315, anziché, come stabilito dall’Assemblea costituente, da un numero di rappresentanti, per la prima, pari a 1 deputato ogni 80mila cittadini (o frazioni superiori a 40mila) e per il secondo un senatore ogni 200mila abitanti (o frazioni superiori a 100mila), corrispondenti, al tempo a 590 deputati e 255 senatori.

Con l’ordinamento del 1963, oggi abbiamo un deputato ogni 96.006 abitanti e un senatore ogni 192.013 (fonte: Camera dei Deputati).

È interessante notare che la legge del 1963, a quanto si può leggere dagli atti parlamentari, mirava ad "un migliore equilibrio" nella composizione numerica delle due Camere, "in modo che il sistema bicamerale abbia maggiori garanzie di organico funzionamento". Problemi di funzionamento che emergevano soprattutto al Senato, in relazione all’ingente mole di lavoro legislativo a fronte di circa 250 senatori.

Insomma, con la riduzione numerica il Parlamento perderebbe efficienza e sarebbe sempre più subalterno e ricattabile da parte del Governo; avremmo un’ulteriore crescita dei decreti, dei voti di fiducia e, soprattutto, aumenterebbe incommensurabilmente il potere dei capi-partito, che diventerebbero ancor più i veri decisori in merito a chi deve sedere nelle assemblee legislative.

Un taglio, quello che viene chiesto di ratificare, che fa aumentare il peso delle Regioni e che porta dritti all’autonomia differenziata, potendo attribuire ad esse poteri su ben 23 materie (e lascia basiti che a sostenere tale aberrante modello, di cui si è avuta prova in Lombardia per l'emergenza Covid, vi sia anche l’unico governatore del nord di centro sinistra). In definitica, andremmo verso un’Italia divisa in due, fra un Nord sempre più ricco e un Sud sempre più povero. Avremmo, insomma, quella “secessione dei ricchi” di cui parlava Piero Calamandrei all’Assemblea Costituente.

Se proprio si voleva risparmiare, bastava erogare a deputati e senatori una indennità netta non superiore a 5.000 euro, anziché gli oltre 15.000 euro mensili attuali dei deputati e i 12.000 dei senatori e si sarebbero risparmiati circa 102milioni di euro annui e, soprattutto, forse con una indennità così ridotta (ma ancora molto alto rispetto ai 1.800 euro lordi del reddito medio mensile degli italiani e dei 1.250 euro mensili lordi percepiti dal 44% della popolazione), i rappresentanti eletti in Parlamento avrebbero potuto meglio comprendere le drammatiche condizioni di vita dei loro concittadini.

Da un'analisi del Servizio studi congiunto del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati (n. 280/2020) scopriamo che avremo il Parlamento con il peggior rapporto numerico eletti/elettori in Europa. Per la Camera si passa da un deputato ogni 96mila abitanti a uno ogni 151.210 e, per il Senato, da un senatore ogni 188.424 abitanti a uno ogni 302.420 e, quel che è peggio, tale rapporto non sarà uniforme in tutto il paese. Inevitabilmente, ne deriverà un ulteriore distacco tra parlamentari e territorio. In conclusione, la distanza già esistente tra cittadini ed eletti aumenterà sempre più e si aprirà un’autostrada al presidenzialismo.

Il confronto con altre grandi democrazie si può fare con la Camera, visto che pochi sistemi si basano sul bicameralismo perfetto. Germania e Francia hanno 0,9 deputati ogni 100mila abitanti, la Spagna 0,8, l’Italia con il taglio arriverebbe a 0,7, sarebbe l’ultimo paese europeo per rapporto eletto/elettori. Un dato ancor più preoccupante ove lo si confronti con quello di piccoli paesi come Malta che ha 14,3 eletti, Lussemburgo 10, Estonia 7,7 sempre per 100mila abitanti.

Una riforma, frutto dell’applicazione di quei criteri meramente aziendalistici tanto in voga, che ora si vuol applicare anche agli organi costituzionali. Una riforma che non tocca le vere distorsioni delle assemblee elettive: una legge elettorale che prevede solo dei nominati dai capi-partito, non essendo prevista la preferenza; la mancanza di una legge sul funzionamento dei partiti (l’art. 49 della Costituzione resta inattuato) e sulla loro democrazia interna; la reintroduzione, con regole chiare e vincolanti sul suo utilizzo, del finanziamento pubblico ai partiti, ora sempre più "ostaggi" delle lobby e, infine, la mancanza di norme certe ed efficaci sulla rappresentanza di genere.

Ma ciò che è peggio è che, come già detto, ci troviamo dinanzi ad una controriforma che conduce dritti al presidenzialismo. Se oggi le Camere in media votano 68 leggi l’anno e la loro attività principale è votare la conversione in legge di decreti varati dall’esecutivo con la minaccia del voto di fiducia, con la riduzione del numero degli eletti l’attività legislativa sarà pressoché azzerata. Al Senato, poi, il funzionamento dei lavori, a causa del ridotto numero degli eletti, sarà stravolto, sarà impossibile mantenere in vita 14 commissioni se non con doppi incarichi ai senatori. La proporzionalità tra gruppi politici e membri di commissione, prevista dalla Costituzione, sarà inapplicabile. Mentre alla Camera si avrà una riduzione dei componenti delle commissioni da 20 a 12-13, cosa che impedirà ai partiti più piccoli di poter avere dei propri membri in tutte le commissioni.

Il risultato sarà un Parlamento di pochi, scelti da 4-5 segretari di partito che, in assenza di finanziamento pubblico, sceglieranno tra persone benestanti, portatrici di interessi particolari; assisteremo a campagne elettorali all'americana, sempre più competitive e costose, finanziate da lobby e, alla faccia del risparmio attuale, assemblee che, c'è da giurare, si concederanno ulteriori privilegi e aumenti delle indennità parlamentari. Non si avrà, dunque, quel Parlamento di qualità che sognano gli italiani, dove ci si confronta e dove si difendono gli interessi sociali, ma avremo uno zimbello nelle mani di esecutivi, a loro volta eterodiretti dai poteri forti.

Quel che indigna maggiormente è che questo referendum - come già quelli del 2006 e del 2016, bocciati dalla maggioranza dagli elettori - serve, nelle intezioni del principale partito proponente del "taglio", semplicemente a far riguadagnare consensi a una forza politica che aveva illuso gli italiani che finalmente avrebbero avuto una vera rappresentanza nelle aule parlamentari. Invece, quel che ci troveremmo di fronte sarebbe non il tanto sbanderato slogan "uno vale uno", ma "centinaia di migliaia valgono zero"!. Dal diritto alla partecipazione, all’oligarchia; da una democrazia solidale, a una democrazia per pochi amici dei segretari di partito!

Un progetto che aiuta solo quanti anelano allo smantellamento di quel poco di Stato sociale che ci è rimasto. Come giustamente ha scritto la costituzionalista Lorenza Carlassare, tra i protagonisti della battaglia per il NO nel 2016, “ Lo spirito che anima la riforma si trova nel rafforzamento del governo, nell’allontanamento dei cittadini, nella chiusura a voci diverse della società. E così si vuole nascondere il conflitto sociale, perché gli interessi dei deboli non devono disturbare gli interessi consolidati”.

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