di Rocco Tritto
Le norme contenute nell’iniquo decreto legge n. 78 (in corso di conversione al Senato), con il quale il governo ha varato la manovra correttiva, ponendo l’onere di 62 mld di euro, e non di 25, per metà a carico dei dipendenti pubblici e per l’altra metà a carico degli enti locali, sta per finire nelle aule dei tribunale.
A trascinarlo saranno niente di meno che i magistrati. A comunicarlo è stata nei giorni scorsi l’Anm (Associazione nazionale magistrati), che ha preannunciato “una sorta di class action dinanzi al Tar, dove verrà sollevata questione di legittimità costituzionale”.
Si tratta di una iniziativa da seguire, anche perché il rinnovo del contratto di lavoro è un diritto dei lavoratori, sia pubblici che privati, riconosciuto dalla legge, e la cui sottoscrizione è demandata alla parte datoriale e a quella sindacale, che agisce - quest’ultima - in nome e per conto dei lavoratori stessi
Ciò che è discutibile, dunque, è il quantum, vale a dire l’ammontare dei miglioramenti economici, ma non l’an, cioè il diritto al rinnovo contrattuale.
Ne consegue che l’abrogazione di tale diritto, pur se limitata (per ora) a un quadriennio, si appalesa come un arbitrio avente la connotazione della incostituzionalità. In un Paese che vede due potenti sigle sindacali (Cisl e Uil) condividere la scandalosa manovra correttiva, un’altra più potente sigla (Cgil), opporsi sì ma senza rinuncia alcuna all’irrealizzabile sogno dell’unità sindacale, l’unica risposta seria e convinta è stata quella del sindacalismo di base che, senza se e senza ma, è scesa in piazza per contestare in toto la manovra.
E se a reagire sono stati addirittura i magistrati, vuol dire che lavoratori e sindacalismo di base di ragioni da vendere ne hanno fin troppo.