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Lunedì, 20 Mag 2024

di Adriana Spera

Si è chiuso ieri a Torino il 9° Salone Internazionale del Gusto, quest'anno in contemporanea con Terra madre.

Presenti 200 presìdi italiani e 120 internazionali provenienti da 50 Paesi, 1000 produttori italiani e 400 Comunità del cibo in rappresentanza di 100 Paesi.

Un appuntamento che, al di là del nome, non è solo un happening culinario, un evento per buongustai, una vetrina per i produttori ma sta diventando sempre di più un'iniziativa politica, un momento di riflessione sul nostro stile di vita, sulle politiche economiche e alimentari. Uno sguardo rivolto, nell'era della economia globalizzata, non solo a casa nostra.

In tempi di crisi economica, il cibo può essere una delle leve in grado di modificare la congiuntura negativa, a condizione che si facciano politiche alimentari radicalmente diverse dalle attuali e - guardando al nostro necessario intervento verso i paesi più poveri - a patto che si dia il via ad un diverso modello di cooperazione internazionale che, promuovendo progetti a sostegno delle produzioni agroalimentari locali - come sta facendo Slow food con la creazione di 1.000 orti in Africa - aiuti i contadini a restare nelle proprie terre anziché finire marginalizzati nelle bidonville delle megalopoli.

Con il cibo si può cambiare il mondo. «Un nuovo rapporto tra uomo e natura è il paradigma per uscire dalla crisi», ha detto Carlo Petrini, padre di Slow food e del Salone.

Quali le azioni necessarie? Innanzitutto, sprecare meno, perché - come ha spiegato José Graziano da Silva, direttore generale della Fao – ogni anno i paesi ricchi gettano 1/3 del cibo prodotto, 222 milioni di tonnellate di derrate alimentari, che sarebbero sufficienti a sfamare un miliardo di persone. Occorre valorizzare la biodiversità, che consente di utilizzare semi per produrre anche nelle zone più impervie. Le banche dei semi sono un “bene comune”, “un lascito dei nostri padri da difendere”, come hanno ribadito molti dei partecipanti alla cerimonia di inaugurazione dell’evento.

Un tesoro che sembra purtroppo dimenticato dalle scellerate politiche alimentari attuali.

Il direttore della Fao ha ricordato che «un tempo l'essere umano si nutriva di 23mila tra piante e cereali mentre oggi la dieta si basa su una mezza dozzina di cereali. Le banche dei semi sono espressione delle comunità e difendere la biodiversità significa investire nel futuro». Parole sagge sulle quali dovrebbero riflettere in tanti, ad esempio, il Cnr, che nulla sta facendo per fare chiarezza sulla sconcertante vicenda della Banca del germoplasma affidata all'Istituto di genetica vegetale di Bari, di cui si sono occupati in tanti, compreso Il Foglietto.

Occorre, inoltre, difendere la sovranità e l'autosufficienza alimentare, attaccate nei Paesi poveri dalla nuova forma di colonialismo, rappresentata dal land grabbing ovvero l'acquisto di terra da parte dei Paesi più ricchi (80milioni di ettari in pochi anni) per garantire cibo e biocarburanti agli stati acquirenti.

Nei Paesi ricchi, come il nostro, l'attacco viene, invece, dalla speculazione edilizia e dalla cattiva gestione del territorio agricolo: in 30 anni è stato sacrificato al cemento 1/5 della superficie della penisola.

Il risultato è che importiamo, già oggi, tra il 50 e il 70% dei cereali e il 20% dell'olio che consumiamo.

Salvaguardare, invece, le superfici destinate all'agricoltura è strategico per la nostra sopravvivenza, per la difesa dell'ambiente e del paesaggio.

A tutto ciò si va ad aggiungere la speculazione finanziaria, che con le transazioni sulle commodities agricole, decine di volte superiori al valore delle transazioni reali, alimenta la volatilità dei prezzi, che ha gioco facile in assenza di un raccordo tra le politiche agricole mondiali.

Occorre scegliere cibi a basso dispendio energetico e di risorse, produzioni poco inquinanti (il cibo industriale genera il 50% dei gas serra), valorizzare i prodotti locali a km 0, in sintonia con l'ambiente e la stagionalità, comprare direttamente dagli agricoltori per garantire ad essi un reddito decente, dal momento che, spesso, la grande distribuzione paga al contadino cifre che non coprono neppure le spese di produzione.

Oggi nel mercato del cibo vi sono enormi disparità e noi possiamo fare molto per reintrodurre criteri di equità perché, come ha ribadito Carlo Petrini, «cambiando il nostro cibo, iniziando a sceglierlo secondo parametri che rispettino la qualità, l’ecologia e la giustizia sociale, avremo la possibilità di cambiare il mondo».

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