L’orientamento della Corte di Cassazione in materia di mobbing non accenna a mutare se è vero, come è, che i comportamenti del datore di lavoro o del superiore gerarchico - che finiscono per assumere forme di ostilità, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo per il suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità, per poter essere censurabili nelle aule di giustizia - devono essere sistematici e protrarsi nel tempo.
E’ quanto emerge dalla recente sentenza della Suprema Corte n. 16335 del 3 luglio 2017, che ha confermato che, ai fini della configurabilità come mobbing della condotta lesiva nei confronti del lavoratore, necessitano: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.