Difficile dire qualcosa di originale sulla vicenda ucraina. Così come per i combattimenti, ci sono due parti che si sono formate ben presto e si fronteggiano senza mediazione; addirittura senza desiderio di mediazione. L’argomento è divisivo, così come la guerra di Spagna, ad esempio; attraversa coppie e amicizie, incrina o compromette rapporti quando non si riesce proprio ad accantonarlo. Ciascun episodio viene utilizzato, mettendo accuratamente da parte altri episodi, per rafforzare le proprie convinzioni.
La maggior parte degli abitanti dei paesi occidentali, che chiamerò “maggioranza”, segue il mainstream delle informazioni ufficiali o pretese tali, che hanno cancellato, o cercato di farlo, le informazioni precedenti il 24 febbraio 2022, quando ad esempio gli inviati delle tv occidentali si recavano nel Donbas a documentare bombardamenti e stragi di matrice governativa; o che propinano fake news evidenti, quali ad esempio l’ipotesi che siano stati i russi a sabotare il gasdotto NorthStream.
Una minoranza, invece, va a cercare informazioni diverse, che pure sono disponibili nonostante le difficoltà di reperirle (di questa faceva parte Andrea Rocchelli, fotoreporter ucciso nel maggio 2014 nel Donbas da militari ucraini); informazioni che vengono prontamente tacciate di propaganda russa, come se quelle ufficiali fossero, viceversa, espressione della verità assoluta.
Colpisce la assoluta impermeabilità della “maggioranza” alle informazioni diverse dal mainstream; maggioranza che, peraltro, è tale solo a partire dalla data dell’invasione e che fino ad allora, a partire dal 2014, sapeva a malapena dove fosse l’Ucraina, ignorava l’esistenza del Donbas, ignorava che vi fosse in corso un conflitto, ecc..
Alcuni rifiutano anche di accedere a quel minimo di informazione non esageratamente di parte. Un esempio? Trovo difficoltà a fare accettare – anche a persone generalmente dotate di un minimo di apertura mentale - la visione del film “Ukraine on fire” (2015) di Oliver Stone, persona che certamente non appartiene al mainstream ma i cui film di denuncia sono stati generalmente apprezzati e accolti positivamente.
È come se avessero paura di fare i conti con una realtà che vogliono ignorare; un po’ come quando si compra un libro problematico perché se ne è sentito parlare e lo si mette da parte per momenti migliori. Altri invece si sono costruiti – talvolta in maniera semplicistica – risposte e obiezioni a argomenti vari, che passano dalla diagnosi dei disegni di Putin e culminano invariabilmente nella frase “sì ma questo non giustifica l’invasione”.
Le parole di “Bella Ciao”, di cui al titolo, mi risuonavano nella testa quando si avvicinava lo scorso 25 aprile. C’era qualcosa che non andava: la canzone rischiava addirittura di essere adottata da Zelensky e il mio giudizio sull’invasione non era così netto come il testo avrebbe suggerito. Da che parte stavo?
Su questo non avevo dubbi: dalla parte delle minoranze. Quelle minoranze che venivano emarginate e oppresse in nome del solito nazionalismo; che perdevano progressivamente i loro diritti in quanto qualcuno aveva deciso di imporre loro una nuova democrazia, quella “vera”; cui veniva negato il diritto alla autodeterminazione, diritto che vale solo per qualcuno, secondo la decisione di altri; che venivano massacrate in quanto osavano difendere sé stessi e la loro cultura.
Perché questo era il nodo centrale: quelle minoranze non sono solo “russofone” o, peggio, "filorusse, aggettivo che ne limita l’identità; sono “russe”, così come lo sono altre minoranze ad esempio in Lettonia o in Asia Centrale, private della propria cultura e dei propri diritti per via di confini tracciati in contesti non più attuali.
Va ricordato ad esempio che la Crimea, russa dal secolo XVIII, fu “donata” all’Ucraina da Chruscev nel 1954, nell’ambito della allora URSS; che a partire dal 1990 la Russia aveva riaperto la questione e che nel 1994, a seguito di voto popolare, il Parlamento della Crimea istituì una Repubblica indipendente, evaporata poi nel 1995, a seguito della concessione di una certa autonomia da parte di Kiev.
Un percorso simile fu tentato nel Donbas, a partire dagli eventi del 2014, tramite referendum come il solito non riconosciuti dall’Occidente. In seguito, l’autonomia delle province orientali doveva essere garantita dagli inapplicati Accordi di Minsk (e ce ne vollero due); di recente, abbiamo appreso da Merkel e Hollande che quegli accordi servivano solo a prendere tempo per permettere all’Ucraina di armarsi e – aggiungo io – a continuare a soggiogare le minoranze.
Le conseguenze sono note anche a chi crede che i problemi siano cominciati il 24 febbraio 2022, come scandiscono i bollettini di guerra che le tv mandano in onda: il posizionamento delle forze armate russe al confine, la corsa frenetica dei capi di stato e di governo occidentali a Mosca per scongiurare il conflitto, l’ottenimento di qualche risultato subito disapprovato dagli altri leader, in particolare da quello più importante. E quindi l’invasione.
Ho cercato di ragionare attorno alla schematizzazione che la nozione di invasione rappresenta, a cominciare dalla sua adozione come spartiacque cronologico fittizio (il “prima” non esiste per i più; esiste solo il “dopo”). Agli occhi della “maggioranza” la violazione del confine nazionale sembrerebbe essere un crimine internazionalmente inaccettabile, e poco importa se i confini attuali sono stati determinati anch’essi da guerre.
Superfluo anche osservare che l’intoccabilità dei confini non sembra valere universalmente; altri casi, anche recenti, di violazione dei confini nazionali, transitorie (Stati caraibici e del Centro America, Iraq, Serbia, Siria, solo per ricordarne alcuni) e anche permanenti, come Cipro (dove non cisono né turcofoni, né filoturchi, ma turchi e basta) sono stati giustificati con le più svariate ragioni e accettati, quando non addirittura approvati, dalla “maggioranza”. E, in fondo, quella di Garibaldi non era forse una invasione?
Anche “Bella Ciao” esprime questo sentimento? Alla canzone credo vada concesso che la necessaria semplificazione poetica non possa descrivere in una sola riga le ragioni della Resistenza. A me interessa affermare che emarginazioni, conflitti, uccisioni, stragi che avvengono all’interno di uno stato e che colpiscono le minoranze non sono soltanto “affari interni nazionali”, ma ci riguardano tutti. E che le guerre fanno orrore, dentro e al di là dei confini, comprese quelle ipocritamente definite "preventive" o "umanitarie", così come chi le fomenta e ne impedisce una risoluzione pacifica.
Massimiliano Stucchi
Sismologo, già dirigente di ricerca e direttore della Sezione di Milano dell’INGV
Fondatore e curatore del blog terremotiegrandirischi.com
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