di Rocco Tritto
Il decreto legislativo di riordino degli enti pubblici di ricerca vigilati dal Miur, entrato in vigore il 15 febbraio scorso, viene da lontano e ha avuto come primogenitore l’indimemticabile ministro Mussi, che aveva promesso di abbattere e rifondare la ricerca pubblica del Belpaese.
Sappiamo tutti come è andata a finire per la compagine governativa, al cui interno Mussi aveva assunto il ruolo di grande riformatore.
Il progetto, in lunga e dolorosa gestazione al momento della rapida quanto ingloriosa caduta del governo Prodi, non venne cestinato dal successore di Mussi, ma ripreso, rivisto, corretto, approvato e presentato dalla Gelmini come esempio di innovazione e modernizzazione della ricerca italiana.
Nulla di più fallace. Chi crede di poter “promuovere, sostenere, rilanciare e razionalizzare le attività nel settore della ricerca, di garantire autonomia, trasparenza ed efficienza nella gestione” con il citato decreto, sa di non dre il vero. In realtà, il provvedimento si limita a ridurre qualche posto di consigliere di amministrazione, ma non un euro in più destina all’attività scientifica degli enti.
Nessuna garanzia sul corretto e trasparente svolgimento dei concorsi; non una parola sulla grave piaga del precariato, che continua a dilagare. Eppure, quando vogliono, gli inquilini di Palazzo Chigi un occhio, anzi due, di riguardo verso la ricerca ce l’hanno. Soprattutto se l’ente si chiama Icranet, che sembra essere lo zio d’America della povera e bistrattata ricerca italiana.