- Dettagli
- di Roberto Tomei
di Roberto Tomei
Uno dei più comuni tra i luoghi comuni italici dice che il Sud vive sulle spalle del Nord, cioè dell'Italia che produce.
“La quinta stagione” di Peter Brosens e Jessica Woodworth, con Aurélia Poirier, Django Schrevens, Sam Louwyck, Gill Vancompernolle, Peter Van den Begin; durata 93’, nelle sale dal 27 giugno 2013, distribuito da Nomad Film
Recensione di Luca Marchetti
Dopo quasi dieci mesi dalla sua prima mondiale al Lido di Venezia, arriva finalmente anche nelle sale italiane La quinta stagione (La Cinquieme Saison), una delle pellicole più interessanti (e disturbanti) dell’ultima Mostra del Cinema.
Il film, diretto dalla coppia di registi Peter Brosens e Jessica Woodworth, è il capitolo conclusivo di una trilogia che, inizialmente attraverso il documentario, affronta il rapporto tragico e conflittuale che si è instaurato tra l’Uomo e la Natura.
Dopo aver parlato dell’avvelenamento del terreno (Altipiano) e delle malattie infettive degli animali (Khadak), la coppia belga per il gran finale sceglie di mettere in scena un racconto di finzione, una sorta di disaster movie metafisico.
La quinta stagione, sembrerà strano sentirlo dire, almeno tecnicamente non è troppo lontana da quelle rumorose pellicole piene di effetti speciali nelle quali registi come Roland Emmerich (2012, The Day After Tomorrow) si divertono a inscenare catastrofi naturali e apocalissi. Infatti, come in quelle mega-produzioni, il film segue la vita di diversi personaggi, tutti costretti ad affrontare un disastro climatico, e mostra l’evoluzione dei loro rapporti in questa situazione di pericolo. Se però in quei prodotti, spesso la disgrazia naturale dava la possibilità all’umanità di riscoprire solidarietà e speranza, ne La quinta stagione, invece, la vicenda si dirige, in modo inesorabile, verso un finale spietato e crudele.
Nel piccolo paesino del film, infatti, quando l’inverno decide di non finire e la terra smette di dare i propri frutti, la maggioranza della popolazione non pensa nemmeno per un momento ad aiutarsi a vicenda ma, anzi, non perde l’occasione per tirare fuori il peggio della propria natura, dando sfogo a grettezze, bestialità e paranoie.
I pochi personaggi positivi, tra cui un povero straniero cui è cucito addosso il ruolo del capro espiatorio da sacrificare, non possono fare altro che venire schiacciati dalla lucida follia della comunità, sfociata ormai in un’irreversibile brutalità ancestrale.
L’involuzione civile di una società messa alla prova è un tema trattato, anche con grande intelligenza, in molte altre opere (ad esempio Cecità di Jose Saramago). Questa volta però i due autori evitano il tono didascalico del trattato sociologico o della pedante operetta morale sulla miopia dell’Uomo.
Brosens e Woodworth dunque partono, come nella miglior fantascienza, da una storia assurda e con spirito da documentario si limitano a osservare la deriva dei propri personaggi.
Il risultato è un lavoro dove lo spettatore è preso e condotto in un’atmosfera angosciante e disperata, la quale lascia dentro un terribile ma sano senso di disgusto, che accompagnerà il pubblico per diverso tempo.
“L’uomo d’acciaio” di Zack Snyder, con Henry Cavill, Michael Shannon, Amy Adams, Kevin Costner, Diane Lane, Russell Crowe; durata 144’, nelle sale dal 20 giugno 2013, distribuito da Warner Bros Italia
Recensione di Luca Marchetti
Da quando, nel 1978, Richard Donner (diventato, poi, un maestro del cinema d’azione) portò sullo schermo Superman, con uno sconosciuto Christopher Reeve come protagonista (e un Gene Hackman nei panni della nemesi Lex Luthor), molti hanno provato a costruire intorno al supereroe per eccellenza una storia degna della sua statura.
Negli ultimi trentacinque anni, i tentativi su questa strada sono stati fallimentari. Basti ricordare i progetti naufragati di Tim Burton e la recente, triste, esperienza di Bryan Singer (autore di X-Men e de I soliti sospetti), con lo zoppicante e dimenticabile Superman Returns, per avere chiare quali erano le difficoltà dell’operazione rilancio.
La Warner, però, orfana di tante fruttifere saghe arrivate alla loro conclusione, ha voluto dare una nuova possibilità a questo franchise (potenzialmente ricchissimo) e ha pensato bene di affidarsi a Christopher Nolan, suo personale Re Mida.
Il regista inglese, artefice del successo commerciale e dell’affermazione artistica della nuova trilogia su Batman (altro supereroe classico), era senza dubbio la persona giusta al momento giusto.
Dopo essersi ritagliato il ruolo di produttore esecutivo e aver puntato su solide sicurezze (la sceneggiatura del suo fedele David S. Goyer, già autore dei tre film sul Cavaliere oscuro) e scommesse più azzardate (il regista Zack Snyder, famoso sia per la sua incredibile forza visiva, sia per l’incapacità di narrare storie complesse e stratificate), Nolan ha deciso di partire da una semplice domanda: nel mondo dei social network e della globalizzazione della rete, come si può rendere verosimile l’epifania di un super uomo? E' proprio in questo quesito che si concentra il senso ultimo de L’uomo d’acciaio.
Per prima cosa, il Clark Kent della coppia Goyer- Nolan (interpretato da Henry Cavill) non è già un’icona ma un giovane uomo ancora incosciente dei propri poteri e delle proprie responsabilità, schiacciato dalle lezioni morali paterne e terrorizzato dalla risposta che l’umanità potrebbe dare una volta scoperta la sua esistenza. Partendo da questa complessa psicologia personale e da un profondo senso di emarginazione, la crescita interiore di Superman assume un valore importante e si partecipa emotivamente alla sua decisione di assumersi la missione di proteggere la Terra.
Da questo punto di vista i tantissimi riferimenti cristologici non sono lanciati a caso piuttosto contribuiscono ad arricchire il senso di plausibilità della vicenda. E proprio nell’affidarsi completamente a una figura divina, unica capace di salvarci, che si avverte la grande rottura concettuale con i precedenti nolaniani di Batman dove, invece, c’era sempre un’enorme fiducia nell’umanità e nei suoi mezzi.
In questa svolta provvidenziale, quasi (concedetelo) manzoniana, risiede il cuore di un film come L’uomo d’acciaio, capace di non essere solo un blockbuster dal consumo di massa.
Anche dal punto di vista visivo, poi, la pellicola raggiunge interessanti vette artistiche. Snyder, forse perché sollevato dalle incombenze narrative, esprime tutta la sua indubbia capacità di girare e, aiutato da lavoro del direttore della fotografia Amir Mokri, rende la pellicola, anche visivamente, un’esperienza dall’impatto destabilizzante. I combattimenti mozzafiato, le scene di volo, i flashback nei campi di grano del Kansas (dove possiamo ammirare un grande Kevin Costner), tutto è funzionale alla riuscita totale del ritorno di Superman.
Certo, il film non è privo di difetti come alcune ingenuità di sceneggiatura (specie nei dialoghi), la durata eccessiva e la ripetitività degli interventi salvifici dell’eroe (però qui torniamo sempre sul carattere messianico del protagonista) ma anche con questi piccoli nei non si può dire che L’uomo d’acciaio non sia un’opera ambiziosa e importante, soprattutto se considerata un semplice kolossal.
Se tutte le mega-produzioni avessero questa profondità e fossero realizzate con questa attenzione, sarebbe un mondo (cinematografico) perfetto.
"Holy Motors" di Leos Carax, con Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Michel Piccoli, Elise Lhomeau, durata 110’, nelle sale dal 6 giugno 2013, distribuito da Movies Ispired
Recensione di Luca Marchetti
Nanni Moretti, anni fa, per stroncare un misterioso capolavoro del cinema italiano (leggenda narra si tratti di C’era una volta l’America di Sergio Leone) disse che in molte occasioni è doveroso ricorrere alla semplicità. Sentite queste parole non dobbiamo sorprenderci se l’anno scorso, al festival di Cannes, la giuria presieduta dal regista di Ecce Bombo ha pensato bene di ignorare completamente un film come Holy Motors di Leos Carax.
Dell’opera cinematografica del regista francese, infatti, si può dire qualsiasi cosa, tranne che sia una storia semplice. Immaginiamo, divertiti, cosa abbia pensato Moretti dopo aver visto questo folle mosaico di cinema e aver constatato, forse con fastidio, il grandissimo apprezzamento che il film suscitò nella critica e nel pubblico della Croisette.
Fin dai primi momenti, con un prologo in una sala cinematografica funerea dove irrompe lo stesso regista con un pigiama improbabile, si capisce che quello che si sta per intraprendere sarà un tour de force estenuante e entusiasmante nella follia e nell’arte del regista più “borderline” del cinema d’Oltralpe.
Dopo dodici anni di silenzio artistico (eccetto la regia di un episodio nel film collettivo Tokyo!), segnato da progetti arenati e disgrazie personali (la morte della compagna Yekaterina Golubeva), Carax torna con un’anti-pellicola dove più che seguire una trama lineare si mettono insieme tantissime citazioni, metafore e riflessioni filosofiche, senza mai sentire il desiderio di spiegare alcunché al proprio pubblico.
Lo spettatore inerme, dunque, è investito da un flusso di coscienza visivo in cui, come in un puzzle, sono affiancati alcuni frammenti intrisi di poesia altissima e di liricità emotiva, girati anche con un realismo sorprendente (pensiamo alla discussione in macchina tra il padre e la figlia) ed altri, invece, fatti di pura irrealtà, nei quali appare anche Monsieur Merde, feroce essere immondo ed eroe caraxiano, sanamente distruttivo con la sua forza ferina.
Questa giornata di straordinaria pazzia non poteva realizzarsi con tali risultati disturbanti se il regista non avesse avuto un complice all’altezza della situazione. L’attore Denis Lavant, sodale e feticcio di Carax, è il secondo padre di Holy Motors, incredibile per la sua capacità di cambiare abiti e volti per interpretare uno, nessuno e centomila personaggi, sempre con la stessa dedizione e professionalità, arrivando a commuovere persino nei risvolti più paradossali e respingenti. La sua enorme bravura d’attore sottovalutato esplode qui in tutta la sua forza e mette in ombra i pochi, convincenti, compagni di scena (Michel Piccoli, Kyle Minogue e la bellissima Eva Mendes).
Discorso diverso va fatto per Edith Scob, l’autista della limousine-camerino di Lavant, che, anche solo per i pochi attimi a disposizione, tiene fieramente testa al mattatore.
Detto ciò, riconosciamo che Holy Motors ha tutte le carte in regola anche per essere recepito come un film presuntuoso o, addirittura, irritante. Con un’opera cosi il confine tra sublime e terribile è labile e indefinito.
Credeteci, però, vale la pena di accorrere nelle (poche) sale che finalmente lo proiettano solamente per scoprire l’effetto che vi fa.
Solo Dio perdona – Only God Forgives di Nicolas Winding Refn , con Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Vithaya Pansringarm, Gordon Brown, Tom Burke, Sahajak Boonthanakit , durata 90’, nelle sale dal 30 maggio 2013 distribution da 01 Distribution
Recensione di Luca Marchetti
Nel 2010 molti rimasero fulminati dopo la visione di Drive, primo film “hollywoodiano” del talentuoso regista danese Nicolas Winding Refn. Il giovane autore, infatti, veniva da una carriera ricca di film estremamente coraggiosi (in particolare dal punto di vista registico) ma assai ostici per un vasto pubblico internazionale.
Insomma, una ricetta perfetta per diventare il pupillo di una nicchia ristretta di cinefili integralisti. Fu uno shock positivo, quindi, scoprire che il creatore di gioielli indigesti come Bronson e Vahalla Rising potesse destreggiarsi con grande efficacia in un contesto mainstream, facendo convivere la propria natura di artista indipendente e l’esigenza alla commerciabilità in una sola pellicola.
Drive, dunque, sin dalla prima visione, si rivelava un film sconvolgente, dove violenza e amore si fondevano in un’unica, riuscita, opera d’arte. Con aspettative così, era naturale che tutti noi aspettassimo Refn al varco della nuova opera, eccitati dalla collaborazione con la sua “musa” Ryan Gosling e da una strategia pubblicitaria che prometteva fuochi d’artificio emotivi.
Ebbene, con profonda tristezza, dobbiamo annunciare che questo Solo Dio Comanda è, invece, un’atroce delusione. Sia chiaro, non stiamo parlando di un tradimento ideologico. La pellicola, infatti, pur con i suoi evidenti limiti, è assolutamente coerente con tutti i lavori del regista pre-exploit di Drive.
Anche in questo, come nei precedenti film, infatti, più che alla narrazione fluida e alle interpretazioni degli attori, ottimi, coinvolti, Refn punta al manierismo visivo, all’eccellente esasperazione fotografica e all’integralismo cromatico, tutti dogmi utili solo per mettere in scena una serie disordinata di metafore confuse e simbolismi approssimativi. Dove sono finite la poesia estrema e l’adrenalina mozzafiato di tre anni fa? Purtroppo non riusciamo a trovare nessuna risposta, forse ancora intontiti dalla noia e dalla supponenza di questi infiniti novanta minuti di pellicola (non a caso accolto da rumorosi fischi all’ultimo festival di Cannes).
La prima sensazione, una volta visto Solo Dio Comanda, è quella che Refn faccia tutto ciò con un’attenta cognizione di causa. Se ci permettete un audace paragone politico, sembra quasi che l’autore danese, un po’ come Beppe Grillo, forse terrorizzato da un successo troppo ecumenico, voglia fare di tutto per respingere il proprio pubblico più “moderato” e mantenere vicino a sé solo i seguaci più fedeli e radicali. Questa è, sinceramente, l’unica soluzione sensata che abbiamo trovato, altrimenti non si spiega la folle determinazione di tornare al proprio passato.
Non dimentichiamo, poi, il crimine di non sfruttare attori magnifici come Ryan Gosling e Kristin Scott Thomas, perfetti nei loro ruoli, ma lasciati a se stessi per tutta la durata del film (non citiamo i terribili scambi di battute cui sono costretti). L’unica nota lieta è la scoperta dello sconosciuto attore thailandese Vithaya Pansringarm, dalla presenza scenica indimenticabile. Purtroppo questa è veramente una piccola e inaccettabile consolazione.
Non resta che aspettare la prossima avventura di Refn per capire dove voglia portare la propria carriera. E se ancora vale la pena seguirlo su quella strada.
Se ti piace quello che leggi, puoi aiutarci a continuare il nostro lavoro sostenendoci con quanto pensi valga l'informazione che hai ricevuto. Anche il costo di un caffè!