La Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con sentenza 7 ottobre 2016 n. 20210, si è pronunciata in merito al ricorso proposto da un datore di lavoro, vittorioso in primo grado ma soccombente in appello, che aveva licenziato un proprio dipendente per il quale - assente per due mesi dal servizio per malattia, “come da certificati medici attestanti impedimento di recarsi al lavoro, essendo impossibile qualsiasi forma de deambulazione …”, era tuttavia emerso che, “in base alle disposte investigazioni” da parte dello stesso datore di lavoro, negli ultimi tre giorni della malattia, “egli si spostava ripetutamente dalla sua abitazione, talvolta utilizzando addirittura l’automobile o un motociclo, nonostante l’asserita impossibilità di trasferimento extradomestico”.
Ad avviso del datore di lavoro, il dipendente “non aveva dimostrato come il suo comportamento, ossia i propri reiterati spostamenti, fossero di per sé inidonei a pregiudicare lo stato di malattia o comunque da accelerare la sua guarigione. E le medesime considerazioni valevano circa la prova dell’inidoneità della condotta a palesare la natura meramente simulata del proprio stato di malattia, tenuto conto della specifica patologia lamentata (lombosciatalgia comportante forti dolori alla schiena ed al piede)”.
Per la Corte di Appello, invece, visto che la contestazione disciplinare alludeva alla simulazione della malattia denunziata e, comunque, ad un comportamento inadeguato, in quanto fattore di rischio di aggravamento delta patologia e di ritardo della guarigione; considerato che i fatti contestati riguardavano unicamente gli ultimi tre giorni della malattia durata due mesi, nel corso dei quali il lavoratore era sempre stato trovato in casa in occasione di sei visite di controllo e che era regolarmente rientrato al lavoro alla scadenza indicata; concludeva nel senso che non vi fosse alcuna prova che lo stesso lavoratore con il suo comportamento avesse prodotto effetti pregiudizievoli nel senso precisato – essendovi anzi prova del contrario – e che non sussistevano elementi sufficienti per ritenere, ancorché in via presuntiva, che la malattia fosse stata simulata e che quindi il fatto addebitato integrasse violazione di un qualche obbligo a carico del lavoratore, donde l’illegittimità dell’intimato recesso.
La Suprema Corte, nel respingere il ricorso proposto dalla parte datoriale, ha precisato che l’eventuale assenza del lavoratore dalla propria abitazione durante la malattia, benché possa dar luogo a sanzioni comminate per violazione dell’obbligo di reperibilità durante le cosiddette fasce orarie, tuttavia non integra di per sé un inadempimento sanzionabile con il licenziamento, ove il giudice del merito motivatamente ritenga che la cautela della permanenza in casa – benché prescritta dal medico – non sia necessaria al fine della guarigione e della conseguente ripresa della prestazione lavorativa, trattandosi di obbligazione preparatoria.