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- di Rocco Tritto
Con sentenza n. 30418/2023, pubblicata il 3 novembre 2023, la Corte di cassazione – Sezione Lavoro – ha rigettato il ricorso proposto da una dipendente, collaboratrice amministrativa presso un Istituto scolastico statale, avverso la decisione n.114/2022 con la quale la Corte di appello di Brescia, confermava la sentenza emessa dal Tribunale innanzi al quale la medesima dipendente aveva impugnato il provvedimento con il quale, nel 2019, il Miur le aveva irrogato il licenziamento disciplinare.
A motivo del provvedimento espulsivo, le condotte addebitate alla lavoratrice, la quale, nel corso dell’anno 2017, in cinque occasioni si era allontanata dal posto di lavoro per la pausa pranzo, senza però utilizzare il badge sia in uscita che in entrata, così violando il disposto di cui all’art. 55-quater del decreto legislativo n. 165/2001 e successive modificazioni e integrazioni.
Per i Giudici della Corte d’Appello, nonostante la Guardia di Finanza avesse accertato che la durata delle assenze contestate alla dipendente coincidessero “effettivamente con l’orario della pausa pranzo e si fossero protratte per un tempo sostanzialmente coincidente con la durata della pausa di almeno trenta minuti prevista dal CCNL comparto scuola per i lavoratori che prestano servizio in modo continuativo per un tempo superiore a 7 ore e 12 minuti (art. 51)”, ciò non poteva giustificare il mancato utilizzo del badge da parte dell’appellante.
Gli stessi Giudici evidenziavano che il predetto CCNL afferma che “il diritto alla pausa pranzo non esonera il dipendente dall’incombenza di effettuare la timbratura quando interrompe il servizio per usufruire della pausa”, per cui “la condotta negligente, reiterata e grave, per le modalità con le quali è stata realizzata, lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con l’amministrazione datrice di lavoro e giustifica la massima sanzione espulsiva”.
Nei confronti della dipendente era stato avviato anche un giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti, conclusosi con la condanna al pagamento di un risarcimento, ridotto rispetto a quello richiesto dall’Amministrazione, di 1000 euro.
La Suprema Corte – dopo aver ribadito che da parte del dipendente “è falsa attestazione non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio” – ha ritenuto le motivazioni di cui alla sentenza impugnata coerenti con la giurisprudenza della Cassazione secondo cui “la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro”.
Ricorso respinto, dunque, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio e di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Rocco Tritto

Un dipendente con mansioni direttive di una società privata, licenziato nel 2010 con l’accusa di furto di beni aziendali, ma assolto nel 2013 sia in sede penale che nel giudizio innanzi al Tribunale, aveva ottenuto - oltre alla reintegra nel posto di lavoro (avvenuta con oltre 3 anni di ritardo rispetto alla decisione dello stesso Tribunale stesso) - la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni ex art. 18 st.lav. e quella relativa ai danni professionali (per perdita di chance e di lesione di immagine), con la esclusione però di qualsiasi altro danno di natura professionale per la totale inattività subita nel periodo precedente, vale a dire dalla data del licenziamento (2010) a quella della reintegra (2013). Rigettata, senza motivazione, anche la richiesta di condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni esistenziali e morali per licenziamento ingiurioso.
Con ordinanza n. 29101/2023, pubblicata il 19 ottobre 2023, la Corte di cassazione – Sezione Lavoro – ha accolto, con rinvio, il ricorso proposto da un lavoratore avverso la sentenza n.4720/2018 con la quale la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha accertato la dequalificazione commessa ai danni del ricorrente dalla sua diretta superiore, con condanna ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro al pagamento di oltre 20mila euro, ma ha escluso il mobbing per mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli fatti mobbizzanti (demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità).
Con sentenza n.40702/23, depositata il 5 ottobre 2023, la Corte di cassazione – VI Sezione penale – ha accolto il ricorso, presentato ai soli effetti civili dalla parte civile (una Spa, a prevalente capitale pubblico), avverso la sentenza, del 3 marzo 2022, della Corte d’appello di Firenze, che aveva confermato la sentenza del Tribunale di assoluzione dell’imputato dal reato ascrittogli ai sensi dell'art. 314, secondo comma, cod. pen. (peculato), per avere, nei primi mesi del 2013, quale responsabile dell'ufficio acquisti della medesima società, utilizzato sistematicamente, per circa quattro o cinque ore al giorno durante l'orario di servizio, la strumentazione informatica affidatagli, per svolgere ricerche, connettendosi a siti web per ricercare materiale utile per le sue pubblicazioni su tematiche storico militari, così omettendo di fatto di svolgere alcuna prestazione lavorativa, addossando all'ente di appartenenza le spese e i costi per effettuare tali ricerche in "internet", avendo egli memorizzato sulla sua postazione informatica 19 file su argomenti storico militari, 5.848 video e 1.329 file fotografici dal contenuto pornografico.
